Napoli, l'ira del Vasto dopo la passerella di Salvini: «Noi, stranieri in casa nostra»

Napoli, l'ira del Vasto dopo la passerella di Salvini: «Noi, stranieri in casa nostra»
di Paolo Barbuto
Giovedì 4 Ottobre 2018, 10:30
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Occhi bassi mentre attraversi il Vasto, ti suggerisce un amico della zona: «Basta tenere lo sguardo fisso su uno dei violenti per scatenare l'aggressione». Non ci credi, sembra tutto esagerato, tutto fuori misura, pensi che certe cose finiscono solo nei video diffusi dagli abitanti esasperati, ma succedono una raramente. Così il Vasto lo percorri a testa alta. Finché ti imbatti in Anna, unica negoziante italiana che resiste a via Venezia nei pressi della chiesa del Buon Consiglio: «Pensi che quei video siano esagerati? Allora vieni ad aprire il negozio con me ogni mattina, giornalista, e fammi compagnia qui dentro per una sola settimana, scoprirai che violenza e degrado per noi non sono immagini sul web, ma vita quotidiana».

Anna ha mille racconti sugli stranieri ma preferisce partire con la sua «visione» della vicenda: «I veri razzisti sono loro». La frase contiene tutto il disagio del Vasto che convive, giocoforza, con una massa di stranieri sempre più ampia: «Ti guardano in faccia e dicono Italia paese di me..., ti sfidano ridendoti sul muso e dicendo di tutto - Anna non è disperata ma arrabbiata - ho imparato parolacce in almeno venti lingue africane, compresi i dialetti dei villaggi più remoti. Quando me le dicono rispondo per le rime e li caccio dal mio negozio».
 
Tutt'intorno la vita del Vasto prosegue con la drammatica regolarità che s'è manifestata già dieci minuti dopo la fine della visita del ministro Salvini. Degrado, strade invase di robaccia, resti di cibo, bottiglie di birra e liquore, crocchie di ragazzi ad ogni angolo: ti guardano con aria di sfida, affrontano il fotografo «che stai facendo? Cancella la mia faccia dalle tue fotografie». Allontanarsi di fronte all'aggressività significherebbe farsi inseguire e maltrattare, allora bisogna rispondere a muso duro. Da un negozio di abiti sgargianti esce una ragazza giovane con le treccine di un singolare colore tra il viola e il rosso. È gentile, sorride con i denti bianchi che si stagliano sul volto scuro come la pece: «Signori, scusate, ma perché avete fotografato il mio negozio? Io sono in regola, non vorrei finire nel racconto di un quartiere degradato». Spiega di aver seguito tutto l'iter burocratico per aprire quel negozio che per lei è un sogno realizzato, ammette che «tra questi ragazzi ci sono alcune teste calde. Però, per piacere, non continuate a dire che tutti i neri (dice proprio così, «neri») sono cattivi e violenti, perché non è giusto». La ragazza dai capelli viola accetta le rassicurazioni, niente foto del negozio per raccontare il degrado del Vasto, ma qui è tutto uno schifo: «Avete ragione», si allontana imbronciata.

Mario s'avvicina col piglio di chi ha voglia di farsi sentire perché non ce la fa più. Ha superato i settant'anni e vive a via Milano numero 40, il palazzo che il ministro Salvini ha indicato come simbolo del degrado del quartiere, l'edificio dove: «Di italiani siamo rimasti in tre, poi c'è un cinese e duecento immigrati africani».

Mario non ce l'ha con gli immigrati, stipati in dieci in miniappartamenti tarati per due persone: «I veri colpevoli sono i proprietari delle case di questo palazzo. Sono tutti italiani, hanno deciso di fare soldi facili affittandole a queste persone, così hanno decretato la fine del condominio dove io abito da decenni». Per cancellare questa vergogna Mario suggerisce un percorso: «Bisogna andare casa per casa e chiedere se esistono contratti regolari di fitto. Siccome non ce ne sono, le autorità possono aggredire i proprietari. Così otterremo contemporaneamente la liberazione degli appartamenti affittati in maniera irregolare, e sanzioni severissime per i proprietari di quelle case».

Mario prende le chiavi del portone «volete entrare nel palazzo degli orrori? L'interno è esattamente come te lo aspetti: sporcizia, odore acre di spezie, viavai di persone di ogni provenienza.

A ogni parete c'è un invito dell'amministratore a non rubare l'energia elettrica condominiale, a ogni piano c'è una scoperta da fare. L'ascensore arriva a fatica al quinto, così la visita si fa in «discesa». In cima al palazzo la terrazza è serrata da un lucchetto, nessuno può andarci, anche perché da lassù ci sarebbe la vista diretta nelle finestre dell'appartamento sottostante dove c'è un donnone gigantesco di origini nordafricane in lingerie: «Aspetta il prossimo cliente», sospira Mario.

I lucchetti sono il leit motiv dei ogni piano: sono davanti alle porte che sennò verrebbero forzate, sono perfino davanti alla cassette delle lettere perché rubavano pure la posta. Ai piani più alti ci sono famiglie disperate, bambini che vengono trascinati con violenza, lo studio di un commercialista italiano che fa consulenza ai commercianti cinesi.

Man mano che scendi verso i piani bassi, le scarpe iniziano a restare sempre più incollate a quel che resta del pavimento, avvolte da un misterioso mix di resti di cibo e d'altra roba che non sei capace di identificare. Qualche uscio socchiuso lascia intravedere prostitute in attesa, altre porte invece sono completamente aperte: «Sono i ristoranti in casa», si arrabbia Mario. Le donne cucinano, all'ora del pranzo gruppi di ragazzi entrano ed escono dal palazzo per andare a prendere un piatto in cambio di mezzo euro.

«Non ne posso più - s'infervora Mario - sono arroganti, irrispettosi, violenti. Ieri per far capire agli inquilini del piano di sopra che devono smettere di gettare secchiate d'acqua sporca dal quarto piano, sono andato a bussare tenendo un bastone fra le mani. Avevo paura che potessero scatenarsi contro di me».

L'uomo è affranto: «Sono comunista, lo sono sempre stato.

Ero in piazza durante il 68. Oggi vi dico che spero in Salvini. Solo lui può salvarci da questo schifo».

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