Scuola abbandonate, Gomorra e Stato assente: ecco la San Giovanni delle «belve»

Scuola abbandonate, Gomorra e Stato assente: ecco la San Giovanni delle «belve»
di Alessio Fanuzzi
Giovedì 23 Novembre 2017, 18:12 - Ultimo agg. 18:13
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Lo chiamano Bronx. Da sempre, da quando negli anni Ottanta furono tirati su nel cielo quei due palazzoni grigi. È da lì, da via Taverna del ferro, che sabato notte sono partiti i trenta giovanissimi che hanno messo a ferro e fuoco i vicoli di Chiaia. È qui, in questo spaccato di edilizia popolare post terremoto, che sono nate e cresciute quelle che il questore di Napoli, Antonio De Iesu, ha definito «belve».

Erano tutti operai, una volta, a San Giovanni a Teduccio. Centomila, ne contavano gli annuari fin quasi agli anni Ottanta, disseminati tra decine di fabbriche fiorenti, dalla Cirio alla Corradini, dalle Vetrerie Ricciardi alla Massa Lombarda, dalle Manifatture cotoniere meridionali alla Q8. Oggi di quelle fabbriche sono rimasti solo gli scheletri. E gli operai non ci sono più. E i figli degli operai si sono scoperti disoccupati. E i nipoti hanno perso i valori forti della tradizione e scoperto l'ideologia camorrista, vecchia e nuova generazione.

«Perché i quartieri hanno generato queste belve?», si chiede sconsolato il questore. Perché in questi quartieri la disoccupazione sfonda il 40 per cento, perché i ragazzini crescono da stranieri, qualcuno senza scuola, molti senza centri d'aggregazione, troppo spesso esclusi da ogni progetto di recupero sociale. Li chiamano «cannibali», perché sono feroci, accumulano rabbia e, quando la scaricano, la scaricano contro chiunque, anche contro quelli che sono cresciuti con loro, quelli con cui hanno condiviso partitelle di pallone in campi da calcio improvvisati sotto il sole o pasti più o meno caldi nelle case famiglia.

Eppure qualcosa si muove. In uno scenario desolante, in un rione abbandonato a se stesso, c'è chi ha saputo trovare la forza di costruire un'alternativa, c'è chi quei «cannibali» li guarda negli occhi, «perché in fondo non sono belve ma ragazzi scordati da Dio e dagli uomini». Cesare Moreno ha 71 anni, la barba lunga e la pancia gonfia. È il maestro con i sandali, quelli che vent'anni fa mise in segno di protesta perché il suo progetto, il progetto Chance, aveva ricevuto i fondi della Legge 285, aveva ricevuto i vestiti, ma restava senza scarpe, perché le istituzioni non garantivano (e non garantiscono) le attività ordinarie. Presidente dell'associazione Maestri di Strada, lavora a San Giovanni da sempre e di San Giovanni conosce tutto, anche le pietre, anche «i ragazzi scordati da Dio». Li guarda negli occhi, li strappa alla strada e alla camorra. «Soltanto a Napoli Est - racconta - ce ne sono almeno trecento. Non c'è nessuno che interagisca con loro, non c'è nessuno che li ascolti. Sì, molti, non tutti, vanno a scuola, ma non basta, perché a scuola si va per ascoltare un bravo insegnante che fa una buona lezione e questi ragazzi non hanno bisogno solo di questo».

Molti, non tutti, vanno a scuola. Altri l'abbandonano, la Campania è terza per percentuale di abbandono scolastico dopo Sardegna e Sicilia e San Giovanni a Teduccio si contende con Scampia il triste primato dell'area più colpita. Chi non va a scuola dorme fino a mezzogiorno, poi vivacchia, ciondola in strada o scorrazza sui motorini. Dopo le 18, corso San Giovanni, la strada principale, il primo tratto del vecchio Miglio d'Oro, è un viavai di scooteroni e motorini che sfrecciano qua e là, senza una meta. In sella due, tre, anche quattro ragazzini, tutti rigorosamente senza casco. Il corso è il loro campo di battaglia, «fanno avanti e indietro per vedere chi devono sfottere: ogni tanto lo trovano e dallo sfottò nasce la rissa», dice a denti stretti Moreno. «Questo è un luogo di illegalità dichiarata, si fa tutto a cielo aperto», ammette il maestro di strada.

Non esiste risposta univoca ai tanti perché. Non è solo questione di miseria, «anche se la mamma che non sa come mettere il piatto a tavola parla poco col figlio e il papà che entre ed esce dal carcere sta poco col ragazzo». «Il problema - osserva Moreno - è la miseria morale e relazionale, non solo quella economica. Non servono gli assistenti sociali, non serve chi si occupi dei bisogni di questi giovani: serve chi coltivi i loro sogni e le loro speranze».

Sembra facile, detta così. Non lo è. Non è e non può essere facile senza il sostegno delle istituzioni. E qui, a San Giovanni, le istituzioni sono latitanti. Carmela Manco lavora con giovani e bambini dal 1983, quando aprì la prima sede sul Corso di quella che dieci anni dopo sarebbe diventata l'onlus Figli in famiglia. «Sto qua da più trent'anni, anche quindici ore al giorno, e le istituzioni le vedo solo alla vigilia delle elezioni», dice con la voce strozzata dalla rabbia. Sono quasi le otto di sera e nella nuova sede dell'associazione in via Imparato ci sono una sessantina di persone impegnate nel laboratorio teatrale con Mariano Bauduin. Dalla mattina alla sera, duecento giovani riempiono di urla e schiamazzi il vecchio capannone della fabbrica che, ai tempi della Cirio, sfornava latte e lattine in banda stagnata. «Ho letto le dichiarazioni del questore e ancora non ci credo», dice Carmela, una seconda mamma per due generazioni di sangiovannari: «È vero - continua - ha ragione De Iesu, qui ci sono belve in cattività, ma sono stati loro a costringerli in cattività. Questi ragazzi conoscono solo la fame e il degrado, non hanno esempi positivi, emulano quelli delle paranze di Gomorra».

Già, Gomorra. Nella periferia di Napoli Est è la camorra che comanda. Nel Bronx come nel rione Villa. Tra le case popolari costruite attorno alla statua della Madonna del Carmine non entra neanche l'Asia per la raccolta della spazzatura. Eppure, dieci anni fa, un gruppetto di attori e registi innamorati di Napoli osò sfidare i clan nel nome delle arti teatrali. In una palestra dismessa di una vecchia scuola, così, nacque Nest, il teatro della periferia est. «Siamo stati adottati da questa gente», rivela Adriano Pantaleo, il piccolo Spillo della miniserie tv «Amico mio», emigrato da Secondigliano a San Giovanni per «provare a cambiare qualcosa con il teatro». «Ci riuniamo almeno un paio di volte a settimana, vogliamo far capire ai nostri venti attori che esiste anche altro - aggiunge Carmine Luino, tra i fondatori di Nest insieme con Francesco Di Leva, Giuseppe Gaudino e Giuseppe Miale Di Mauro - È questo quello che manca ai giovani di San Giovanni, un'alternativa».
 
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