Sally Monetti, Napoli e l'affare con Caruso: «Tutto iniziò a Toledo»

Sally Monetti, Napoli e l'affare con Caruso: «Tutto iniziò a Toledo»
di Maria Chiara Aulisio
Venerdì 6 Maggio 2022, 14:00
5 Minuti di Lettura

Napoli è il suo punto fermo. È vero che ormai vive a Milano da un bel po' ma è anche vero che se non torna qui ogni settimana (o quasi) gli manca l'aria. Sì, gli manca l'aria di casa sua, quella che respira la mattina quando si ferma a Mergellina, a due passi dagli chalet, prima di arrivare a via dei Mille. Non solo per prendersi un caffè - dal quale pure non si può prescindere - ma per godersi la bellezza di una città che gli manca. Sempre. Sally Monetti, sarto, stilista e musicista - con la sorella Assia che cura la linea donna - porta avanti una tradizione di famiglia inaugurata più di 130 anni fa, quando l'eleganza era una cosa seria e lo stile napoletano il meglio che si potesse avere. A incarnarlo, per molti decenni, è stato Eddy, papà di Sally e ideatore della griffe, indimenticato protagonista di quella mondanità internazionale che allora si chiamava jet set. La passione per la musica Sally l'ha ereditata da lui, che componeva canzoni con la stessa disinvoltura con la quale vendeva una cravatta. 

Canzone preferita?
«Amo tutto il repertorio classico napoletano. Come mio padre d'altronde. Reginella, Voce e notte, autentici capolavori che non mi stanco mai di ascoltare».

Compone anche lei?
«Sì, l'ultima che ho scritto è uscita circa un anno fa: Vieneme a truva', l'ha cantata Gigi Finizio».

Fonti di ispirazione particolari?
«Una sola».

Quale?
«Napoli. Dico sempre che se non fossi nato qui tante cose non le avrei mai fatte. O forse - e parlo anche della musica - le avrei fatte in maniera diversa».

E però vive a Milano.
«Fu una scelta abbastanza obbligata. Avevo una ventina d'anni quando mio padre mi propose di occuparmi del negozio di San Babila».

Alla fine è rimasto lì.
«Inizialmente andavo e tornavo.

Poi mi sono sposato e ci siamo stabiliti a Milano ma non ho mai pensato un solo istante di abbandonare la mia città».

Dal punto di vista lavorativo dice?
«Se dovessi decidere di chiudere qualche negozio non sarebbe mai quello di Napoli. Ho resistito anche quando ci sarebbero state tutte le condizioni per farlo».

Torniamo alla musica e alla città che ispira la sua musica.
«Vieneme a truva' ra'casa mia se ver o mare; vieneme a truva' a cca' se vede sul'o bene; vieneme a truva' mammà ce fa o cafè e parlamme».

È il testo della sua ultima canzone?
«Sapete come è nata?».

Lo dica lei.
«La premessa è che ho la fortuna di vivere in una casa dalla quale si vede il mare. Un pomeriggio venne a trovarmi Bruno Lanza, musicista e paroliere».

Dove abita?
«A via Stazio. Ci mettemmo a chiacchierare guardando il panorama: mia madre portò il caffè e, sorseggiandolo, nacque Vieneme a truva'. Trasformammo in musica e parole la magia di quell'incontro».

Lei suona?
«Sì, il pianoforte».

Glielo hanno insegnato da bambino?
«In realtà non ho mai fatto una lezione. Avevo 14 anni, mi appassionai ascoltando Gianni Aterrano che suonava».

Il musicista?
«Grande amico di mio padre. Mi incantavo a guardarlo muovere le dita sulla tastiera».

Ha imparato così?
«Copiando Gianni. Con il suo carisma è riuscito a trasmettermi l'arte della musica senza mai insegnarmela. Poi un po' alla volta ho cominciato anche a scriverla la musica».

Alla fine è arrivato a Sanremo.
«Lasciamo perdere».

In che senso?
«Per colpa dei Jalisse ci piazzammo al secondo posto. Poi sono spariti dai radar. Ci tolsero la vittoria e mai più visti. Scherzo ovviamente, ma davvero quell'anno rischiammo di vincere il festival».

Che anno era?
«Il 97. Alcuni amici musicisti erano alla ricerca di un pezzo per Anna Oxa. Ce l'avevo, Storie, scritto a quattro mani con mio padre. Lo proposi subito».

Così finiste sul palco?
«In realtà alla Oxa quella canzone non piacque, non voleva cantarla, poi però si convinse e bene fece: fu un successo».

Bella soddisfazione.
«Ci divertimmo da morire. Mio padre a Sanremo sembrava un'altra persona: la musica fa miracoli».

Nei suoi negozi c'è sempre un pianoforte.
«Immancabile. A Napoli, tra una prova e l'altra, capita di suonare, a Milano un po' meno ma pure succede».

A proposito di Napoli. Se deve fare una passeggiata dove va?
«Dove mi porta il cuore».

E dove la porta?
«A via Toledo. Ogni volta che ci passo mi emoziono anche un po'».

C'è una ragione?
«Tanti anni fa, nel lontano 1887, era Toledo il vero crocevia dell'eleganza. E, al civico 50, Eduardo Monetti, nonno di mio padre, aprì una bottega di cappelli. Il primo cliente fu Enrico Caruso e quel cappello venduto al tenore lo fece diventare famoso in tutta la città».

La musica in qualche modo entra sempre in casa Monetti.
«Eduardo ha avviato la tradizione, noi lo abbiamo seguito con orgoglio: Placido Domingo è tra i nostri clienti affezionati».

Musica e moda, insomma.
«Se poi la moda è napoletana non ci sono rivali».

Soprattutto per l'uomo.
«Chi ne capisce davvero viene a vestirsi qui».

Perché la moda maschile partenopea è tanto speciale?
«Questione di stile. Riusciamo a essere innovativi nel rispetto della tradizione. Il taglio della giacca, come si fa a Napoli, da nessuna parte».

Se lo dice lei c'è da fidarsi.
«Criticare non mi appartiene ma il bel vestire non lo trovo negli abiti dei nuovi stilisti che vedo sfilare in passerella. L'eleganza maschile è un'altra cosa».

Un esempio?
«Uno su tutti: il rispetto delle proporzioni. Prima di consigliare un abito, una camicia, ma pure una cravatta, devi guardare chi hai di fronte».

Altro esempio.
«Il bavero della giacca: non può essere standard così come il collo. Vedo pistagne altissime su colli bassissimi e inorridisco».

Troppo facile sbagliare.
«La classe, come sempre, non è acqua». 

© RIPRODUZIONE RISERVATA