Adrian, il «ritorno al futuro» delle solite banalità

di Vittorio Del Tufo
Mercoledì 23 Gennaio 2019, 07:00 - Ultimo agg. 10:03
3 Minuti di Lettura
C’era una volta la Gatta Cenerentola. E Basile, Vico, Benedetto Croce. Ora c’è Adriano Celentano. Il guru della porta accanto. Il maestro di pause e silenzi. L’Uomo che Beve Acqua in Tv. E che lunedì sera ha deciso di rispolverare i più antichi e stanchi cliché su Napoli e di spedirli direttamente nello spazio, proiettandoli in un futuro distopico e senza speranza. Napoli è sporca, cattiva e maledetta. Lo è oggi e lo sarà per sempre, perché così ha deciso il guru. È una megalopoli tecnologica totalmente alla mercé della criminalità organizzata, con tanto di grattacielo «Mafia International» nel centro cittadino.

Siamo oltre la retorica. Siamo anche oltre Gomorra. Siamo a metà strada tra George Orwell, Blade Runner e la preistoria dei luoghi comuni. I quali, con buona pace di quanti si sforzano di offrire di Napoli una narrazione diversa, sopravvivono a tutto. Ce li ritroviamo - immacolati e intatti - anche nel futuro. Spediti a bordo di un razzo missile con circuito di mille valvole. La pizza e i babà, la sfogliatella e la mafia. E magari, perché no, la «mozzarella contaminata» di Caserta, un'autentica bufala, finita nel film «Non ci resta che il crimine». I cliché, tutti in fila. Come soldatini. Come i pastori di un presepe infinito, intangibili, eternamente uguali a se stessi.

Non sarebbe nemmeno caso di parlare di questo ennesimo caravanserraglio delle banalità se non fosse per il suo rimbalzo mediatico. Fa una certa impressione, e non poca tristezza, dover constatare come la retorica riesca a spazzare tutto con un colpo di spugna. Possiamo anche comprendere, e tollerare, il vuoto pneumatico che alberga nella testa di tanti personaggi dello spettacolo che si divertono a discettare di Napoli senza conoscere un solo frammento della sua storia, della sua cultura, delle sue radici, della sua complessità, del suo magma. Facciamo fatica ad accettare che Napoli continui a essere usata (e sfruttata) per dare fiato a ogni tromba e ogni trombone. Non ne possiamo più. Il grande Eduardo diceva che lo sforzo disperato che compie l'uomo nel tentativo di dare alla vita un qualsiasi significato è teatro. Il tentativo di fare cassa, e audience, parlando e sparlando di Napoli si trasforma invece, inevitabilmente, in teatrino. Un teatrino accompagnato, talvolta, da un attesa messianica. Per Celentano, poi: ma di che cosa parliamo?

È un destino irredimibile quello di veder ridotta Napoli a teatrino dei luoghi comuni? Speriamo di no. Abbiamo già segnalato più volte come la tentazione - facile scorciatoia - di raccontare Napoli attraverso gli stereotipi abbia prodotto una sorta di pulcinellismo di ritorno. Che rischia di trasformare un intero universo simbolico in un presepe di simboli immutabili. Ecco il punto: non è Adriano Celentano, con il suo sguardo parziale, ottuso, ad avere un problema con Napoli. È Napoli che ha un problema antico, e irrisolto, con la riduzione della sua complessità a un insieme di «pastori» - dal pastore Pulcinella al pastore Gomorra - e pregiudizi più o meno dormienti da risvegliare a ogni occasione utile.

A questa narrazione seriale che rischia di autoriprodursi all'infinito, e diventare uno schema narrativo rigido e meccanico, Napoli oppone una stagione di ritrovato orgoglio. Lo dimostra la ferita - che ciascuno ha assunto su di sé, fino a trasformarla in una ferita collettiva - provocata dal recente attentato alla pizzeria Sorbillo in via dei Tribunali. Epurato dalla liturgia demagogica della «rivoluzione di popolo» - slogan tanto caro a De Magistris - questo ritrovato orgoglio è un'arma, un tesoro, un valore positivo. Spesso ci facciamo male da soli. Basterebbe assumere la consapevolezza che Napoli non è né una città impaurita, cupa, piegata al ricatto della camorra, come vorrebbero i cantori dello sputtanamento mediatico, e nemmeno un apostrofo rosa tra il Paradiso e il mare. Ma una città che merita, rivendica e pretende rispetto. L'autoflagellazione non è mai una buona cosa: figuriamoci la flagellazione ad opera dei guru del sabato (o del lunedì) sera.
© RIPRODUZIONE RISERVATA