«Aggressioni e pochi soldi, perché ho detto basta al 118»

«A Secondigliano una folla ci aggredì ma trovammo il paziente già morto»

«Aggressioni e pochi soldi, perché ho detto basta al 118»
di Ettore Mautone
Domenica 15 Gennaio 2023, 09:07 - Ultimo agg. 13:28
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Antonella Barbi, 59 anni, ha trascorso 25 anni della sua carriera di medico sulle autoambulanze del 118 a Napoli. A gennaio del 2021 - dopo un anno terribile di pandemia trascorso in prima linea, un Covid contratto in servizio una vita professionale condita da turni massacranti, vita privata sacrificata sull'altare del dovere, poche gratificazioni economiche e di carriera e le inaccettabili aggressioni subite negli anni, la decisione di lasciare. La dottoressa ha aperto uno studio al centro di Napoli in convenzione con la Asl Napoli 1 per la medicina di famiglia.

Come va la sua nuova vita da medico di famiglia?
«Decisamente meglio ma non è certo una passeggiata: oggi ho iniziato l'attività di studio alle 8,30 e ho finito alle 15 e devo ancora fare una mezza dozzina di visite domiciliari. Poi ci sono gli aggiornamenti delle cartelle cliniche, il flusso dei dati da trasmettere alla piattaforma informatica regionale Sinfonia relativo alle vaccinazioni per i fascicolo elettronico, i malati cronici che chiamano anche fuori orario di studio.

L'impegno clinico è rimasto molto intenso ma almeno di notte dormo a casa e posso dedicare qualche ora alla mia vita privata».

Per quali motivi ha lasciato il 118?
«Le componenti sono tante: lo stress, i turni di notte nei giorni feriali e nei periodi di festa, a Natale e Capodanno come a Ferragosto, con la calura estiva come con il gelo invernale. Tanti disagi a vivere su un'ambulanza che scandiscono le giornate stando a contatto costante con le emergenze più disparate, il dolore ma anche l'aggressività ingiustificata di un'utenza raramente grata del lavoro che svolgiamo dopo anni e anni di studio e sacrifici a fronte di pochissime gratificazioni economiche e nessuna possibilità di carriera. Per non parlare della vita familiare e privata che per un medico dell'emergenza viene relegata in secondo piano e ne risente in maniera determinante».

La goccia che ha fatto traboccare il vaso?
«Direi tre: le aggressioni, la pandemia e le condizioni economiche».

Ci racconti la pandemia.
«Oltre ad essermi ammalata, rischiando la vita, un giorno ho dovuto da sola fare decine e decine di visite ad anziani fragili per poi assisterli e accompagnarli nel Covid center. In quella occasione ebbi quasi un malore forse a causa delle bardature, la tuta, la mascherina, la fatica, lo stress».

La parte economica?
«I medici del 118 convenzionati guadagnano meno di tremila euro al mese. Tra l'altro a me e a tanti altri colleghi arrivò anche l'incredibile richiesta di restituzione di 95mila euro da parte della Asl per una indennità oraria inserita in una norma e un contratto recepiti in maniera non chiara su cui la Corte dei conti chiedeva conto».

Quella stortura fu poi corretta dal decreto sostegni durante il periodo del Covid...
«Si ma dopo mesi e mesi di limbo, timori, paure di dover restituire cifre ingenti che per chi come me vive di stipendio rappresentavano un onere insostenibile. Un' incertezza mortificante. Per me è stato anche più facile affrontare queste vicende complesse per il ruolo sindacale che ho nel direttivo della Cisl medici. Chiunque aveva un'alternativa professionale ha lasciato».

Quali le aggressioni che le sono rimaste impresse?
«Una volta a Secondigliano arrivammo quando il paziente era già morto. Le minacce e i comportamenti di una piccola folla inferocita e violenta che ci attendeva erano terribili, vere, tangibili. Decisi di rianimare comunque il paziente effettuando le manovre che si fanno in questi casi pur sapendo che non vi fosse più nulla da fare. Il segno dell'impegno a salvare quella persona purtroppo senza vita ci ha salvati. Ma ricordo anche altri episodi...».

Ce ne racconti un altro...
«Eravamo accorsi a una chiamata di centrale e arrivammo in una decina di minuti allo stabile in tempi fisiologici rispetto alla media ma furono considerati troppi dai familiari del paziente che non aveva neppure nulla di grave. Dal balcone dell'abitazione, al settimo piano di uno stabile senza ascensore, ci lanciarono una pianta con un vaso di coccio pesante che si schiantò al suolo a mezzo metro da noi. Se ci avesse colpiti ci avrebbe uccisi».

Poi c'è stato il periodo del Covid?
«Si giornate pesanti, complesse, interminabili: si montava sull'autoambulanza di sera e si restava in strada per 12 ore di fila, fino all'alba, senza respiro e senza riposo. Dalla centrale operativa arrivavano continue chiamate, codici rossi, pazienti Covid da visitare a domicilio con laboriose operazioni di vestizione e vestizione. Non era più sostenibile».
 

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