Raid fuori scuola a Napoli: «Volevano uccidere anche il bambino»

Raid fuori scuola a Napoli: «Volevano uccidere anche il bambino»
di Leandro Del Gaudio
Lunedì 25 Novembre 2019, 23:01 - Ultimo agg. 26 Novembre, 09:25
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Ribadisce la «ferocia di un gruppo scellerato di criminali che ha scelto di agire per strada, nei pressi di una scuola, in un orario in cui la città si muove per svolgere le più ordinarie e lecite attività quotidiane, evidentemente sconosciute a chi ha deciso di violarne i ritmi nel modo più disumano possibile». 

Parole cariche di rabbia, al di là della prosa giuridica, che portano la firma del gip Lucia De Micco, nel corso della misura cautelare a carico di Giovanni Borrelli e Giovanni Salomone, con l’accusa di aver preso parte all’omicidio di Luigi Mignano, il nove aprile scorso in Rione Villa a San Giovanni a Teduccio. 

Blitz all’alba, due in manette, che si aggiungono ai cinque indagati della prima ora arrestati lo scorso maggio, nel corso delle indagini sul delitto dello zainetto di spider man. Ricordate quella foto? Mancavano pochi minuti alle otto dello scorso nove aprile, quando Luigi Mignano (parente del boss Ciro Rinaldi), viene ucciso mentre accompagna il nipotino a scuola. 

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In azione un commando di guerra a tutti gli effetti, che fa capo al boss Umberto D’Amico, a sua volta legato al cartello dei Mazzarella. Non era mai avvenuto negli ultimi anni che si facesse fuoco di mattina, nei pressi di una scuola (la Vittorino da Feltre), tanto da costringere il nipote della vittima, un bambino di 4 anni, a nascondersi sotto al sediolino del passeggero nell’auto usata dai parenti per accompagnarlo. A terra rimase lo zainetto del piccolo, quasi un segno di resa verso l’ennesima pagina di orrore criminale. 
 

 

Per i pm della Dda, nessun dubbio: i killer sapevano della presenza del bambino, hanno sparato 11 colpi contro l’auto in cui si era rifugiato, volevano eliminare tutti i nemici di ogni generazione (quelli del clan Rinaldi). Oggi è il gip De Micco a ribadire il concetto, ad usare il principio dell’uomo «lupo» per il suo simile, ma soprattutto a sfruttare nuovi elementi di indagine. Tra questi ci sono le dichiarazioni di Umberto D’Amico, il boss pentito, il mandante del delitto, l’uomo della faida contro i Rinaldi. Dice che a San Giovanni «si nasce camorrista», di aver iniziato la carriera di boss nel clan familiare, «a tredici anni», ma anche di aver scelto di collaborare con la giustizia per dare un futuro al figlio appena nato. Bambini da uccidere, bambini camorristi, bambini pezzi di cuore da tutelare, a seconda dei punti di vista. Decisive le indagini dei pm Antonella Fratello e Simona Rossi, sotto il coordinamento del procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli, confessa il mandante dell’omicidio di Luigi Mignano e consente di identificare altri due presunti complici dell’agguato: Giovanni Borrelli avrebbe fatto sparire l’arma usata per l’agguato, una calibro nove, che - stando a una intercettazione - sarebbe stata tagliata con un flex; mentre a procurare l’arma, sarebbe stato Salomone, che avrebbe preso parte anche alla realizzazione del delitto. 
 

Due nomi che si aggiungono a quelli di Umberto Luongo, Gennaro Improta, Salvatore Autiero, Ciro Terracciano (quest’ultimo è indicato come colui che sparò ai Mignano) e il boss Umberto D’Amico, detto «’o lione», sul cui cellulare gli investigatori avevano scaricato uno spyware (il famigerato trojan). In sintesi, il cellulare di D’Amico funzionava come un registratore da diversi giorni prima dell’agguato, immagazzinando una serie di elementi oggi utili alle indagini. Poi ci sono le immagini di una telecamera in zona, ma anche la svolta collaborativa dello stesso D’Amico.

Ma cosa racconta il boss pentito? Dopo aver messo a punto il piano - spiega - D’Amico si sarebbe arrampicato «sul lastrico», una parte del terrazzo dal quale era possibile assistere alla scena del delitto. Fece da spettatore, volle controllare l’operato dei suoi killer. E qualche giorno dopo, sempre in casa D’Amico, arrivarono i primi commenti, sulla freddezza del killer, ma anche sugli istanti successivi l’agguato: «Quando sentisti le botte “bum bum bum”, che fece lui?»; da brividi la risposta: «Scalpitava... (muovendosi sulla sedia, verosimilmente per simulare degli spasmi...)». Eccoli quelli dello zainetto, alla luce del nuovo step investigativo. Ci sono un altro paio di nomi al vaglio degli inquirenti, mentre diventa via via sempre più chiaro lo scenario criminale in cui è maturato il delitto.

Un agguato contro i Rinaldi, da parte dei dirimpettai D’Amico, nel quartiere delle cosiddette stese, delle scorrerie armate, delle continue manifestazioni di violenza.
Mesi fa, qualcuno decise di esplodere un colpo di pistola contro la Fondazione famiglia di Maria, a poche decine di metri dal luogo del delitto Mignano. Un solo colpo, quasi uno sfregio esploso ad altezza d’uomo contro l’ingresso di un istituto che da anni ospita tanti bambini in difficoltà, offrendo alternative valide anche alle donne del quartiere. Sport e attività ricreative, lì in piazzetta Aprea, in un quartiere da sempre alle prese con una realtà difficile, dove sono in tanti ad attendere l’onda lunga delle dichiarazioni del boss pentito. Sei mesi per raccontare tutto, per dare un nome e un ruolo ad amici e nemici, in quella piazzetta di poche decine di metri quadrati dove la vita civile - quella della scuola e del lavoro - ha fatto i conti con un commando militare che non ha esitato a sparare contro un piccolo di quattro anni: bravo a nascondersi sotto un sediolino dell’auto. 

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