Il pm Ardituro: «A Napoli gang giovanili sconosciute agli inquirenti, gap che dobbiamo colmare»

Il pm Ardituro: «A Napoli gang giovanili sconosciute agli inquirenti, gap che dobbiamo colmare»
di Gigi Di Fiore
Martedì 21 Novembre 2017, 08:30
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Da 3 anni è consigliere al Csm, ma per 17 anni ha lavorato alla Procura di Napoli dove dal 2005 è stato nella sezione distrettuale antimafia. Antonello Ardituro guarda Napoli da Roma ed è molto attento a tutto quello che accade nella sua città.

Consigliere Ardituro, che pensa della sparatoria ai baretti di Chiaia a Napoli?
«È stato un episodio molto preoccupante, che mi sembra vada fuori dagli schemi criminali abituali. Bisognerà capire per bene tutto i risvolti, non è la prima volta che si verificano episodi violenti nelle notti giovanili, ma stavolta è accaduto qualcosa di eclatante».
Per il salto di qualità nella violenza?
«Sicuramente. Passare dalle armi bianche alle armi da sparo è un elemento ulteriore di preoccupazione. Ma credo che ci sia da interrogarsi molto sulla parcellizzazione delle questioni criminali nella nostra città che si unisce ad un abbassamento del livello di guardia complessivo».
Quali crede ne siano le cause?
«Penso si sia di fronte ad una bomba socio-criminale, con giovani che sottovalutano il pericolo e il rischio di certe loro azioni. Chi usa le armi o compie gesti violenti e prevaricatori in zone sotto i riflettori è convinto sia semplice e consentito».
Fenomeni legati ad un mondo giovanile emarginato?
«Credo che la difficoltà maggiore di comprensione oggi nasca proprio dal non riuscire più a distinguere cosa accade nel mondo giovanile. Tutto appare mischiato, confuso. E credo che, al di là di tutto, il tema di fondo nevralgico sia il livellamento in basso di valori e riferimenti culturali tra gli adolescenti. Questo impedisce di distinguere e trovare differenze tra aree sociali. Così, sembra non esistano più zone franche cittadine».
Il fenomeno delle gang giovanili violente é tutto napoletano?
«Non direi. È un fenomeno esploso anche in altre città italiane ed europee. Naturalmente, a Napoli tutto si amplifica».
Parliamo di semplificazioni nelle analisi: più facile spiegare ogni episodio violento tirando in ballo la camorra?
«Sicuramente, addossare ogni violenza criminale in qualche modo a famiglie di camorra semplifica molto l’analisi. Senza essere frainteso, in un certo senso rassicura perché ci si riferisce ad un fenomeno, quello dei clan, conosciuto. Fa più paura e sconvolge una violenza in cui non si trovano spiegazioni immediate, perché bisogna ricorrere ad analisi più complesse».
Da dove iniziare per capirne di più delle gang giovanili e della violenza che sprigionano?
«Credo che sia indispensabile cominciare a studiare bene la violenza esasperata che comincia già sui social, dove certi gruppi chiusi comunicano e si rapportano. Vi appare un obiettivo aumento complessivo di violenza, nelle parole che poi si traducono in azioni».
La difficoltà di comprendere fino in fondo questa realtà rende più difficile prevenire e reprimere le violenze?
«Molto più difficile, perché non si posseggono parametri tradizionali in termini di dati e analisi aggiornate. Eppure, siamo di fronte ad una realtà che incide sull’ordine pubblico. Ma è un fenomeno paludoso, sfuggente. Oggi è più facile conoscere le geografie dei clan e le loro attività, mentre nella violenta e composita realtà giovanile le informazioni sono ancora sfuggenti».
Da dove iniziare, come superare questo vuoto di conoscenza per studiare mirate attività di prevenzione?
«Io comincerei sicuramente dai social, come già si fa per fenomeni come il terrorismo o la pedofilia. Un monitoraggio conoscitivo profondo di un mondo giovanile autoreferenziale, che usa slang, canoni condivisi. Un mondo che si fa sempre più violento nell’affermazione sugli altri, sui social come in strada».
Un vuoto di conoscenza da colmare?
«Sicuramente. La polizia postale dovrebbe intensificare il suo lavoro su questa realtà. Penso anche che tra gli inquirenti si possano creare gruppi specializzati proprio a capire le realtà giovanili, che non sono necessariamente organiche a clan di camorra, ma ne utilizzano la cultura della violenza e della prevaricazione».
Una sfida intersettoriale?
«Sì, una sfida complessa. Ci sarà sicuramente bisogno di una vigilanza stretta nei luoghi del divertimento cittadino, ma anche capire, attraverso realtà sentinelle come la scuola, come cambia il mondo giovanile. Potremmo avere molte sorprese».
Qual è l’errore da evitare?
«Sicuramente rifugiarsi in una facile semplificazione nell’analisi. Stiamo assistendo ad una diffusione della violenza nella nostra società e città, in uno scenario paludoso. Credo che, anche dopo che gli inquirenti avranno individuato i responsabili dell’episodio dei baretti, sarà necessario avviare un’ampia azione conoscitiva di una realtà giovanile che rischia di diventare sempre più sfuggente e corrosiva».
 
 

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