Di Lauro jr, la confessione: «Volevo fare il calciatore, così sono diventato boss»

Di Lauro jr, la confessione: «Volevo fare il calciatore, così sono diventato boss»
di Leandro Del Gaudio
Venerdì 29 Maggio 2020, 23:30 - Ultimo agg. 30 Maggio, 09:14
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Ha ripercorso gli anni delle partite di calcetto e delle corse in macchina, lui attaccante mancato con la passione della formula uno. Ha raccontato di quando aveva amici attorno a sé, che poi all’improvviso, o comunque nel giro di qualche mese, si trasformano in affiliati. E lui ad indossare le vesti di potente boss della camorra napoletana. Parola di Marco Di Lauro, nella lettera confessione spedita in Tribunale. Un paio di pagine per raccontare la sua storia, che cambia in modo irreversibile con l’inizio dell’inferno: la faida di Scampia, sessanta omicidi in pochi mesi nella guerra per il controllo delle piazze di spaccio a colpi di incendi, sequestri di persona, morti ammazzati, tregue armate e ancora morti ammazzati contro gli scissionisti.

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Due giorni fa, Marco Di Lauro è stato condannato a 18 anni di reclusione per associazione camorristica, mentre è stato assolto da una serie di reati legati allo smercio di droga. Un verdetto firmato dal gup Egle Pilla, che ha accolto la richiesta di condanna del pm Maurizio De Marco (titolare delle indagini sull’ormai ex latitante, assieme alla collega Vincenza Marra), e che ha firmato il verdetto sul boss di Secondigliano. Catturato a marzo del 2019, dopo una latitanza lunga 14 anni, il boss si confessa nella lettera al giudice. Non si autoassolve, non rinnega il ruolo incarnato per anni agli occhi di amici e nemici dei Di Lauro, ma prova comunque a prendere le distanze da una serie di reati legati allo spaccio di droga. Parte da lontano F4 (quarto figlio, a leggere le pagine di un libro mastro sequestrato anni fa in una casa all’interno di rione dei Fiori, il famigerato «terzo mondo»): «Mi piaceva il calcio, lo sport, e la formula uno. Poi all’improvviso il mondo è cambiato». Chiaro riferimento alla faida - ottobre del 2004 - una guerra che ha trasformato in pochi giorni la vita di tutti: «I miei amici diventarono i miei affiliati», fa capire il Marco Di Lauro. Ammette di aver ricevuto l’investitura criminale dopo la cattura del padre Paolo (il famigerato «Ciruzzo ‘o milionario») e gli arresti dei fratelli maggiori Cosimo e Vincenzo, ammette di aver incarnato il ruolo di vertice di un potere criminale che ha inondato l’area metropolitana di droga, ma ha anche sostenuto di ignorare i particolari di traffici, incassi e investimenti fatti nel suo nome. 

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Difeso dai penalisti Gennaro e Carlo Pecoraro, Marco Di Lauro ha raccontato che «molte persone più scaltre hanno approfittato del mio nome, il mio errore è stato di non oppormi», di non ostacolare che certe cose potessero avvenire. Condannato di recente all’ergastolo come mandante dell’omicidio di Attilio Romanò, impiegato estraneo alla camorra ucciso per errore in un negozio di telefonia, Marco Di Lauro ora fa i conti con il suo ruolo di capoclan. Per quattordici anni è sfuggito alla cattura, vivendo all’insegna del basso profilo. È stato catturato in un condominio di via Emilio Scaglione, dove conduceva una vita lontana dal cliché del camorrista, assieme alla propria consorte. La cura dei gattini, la palestra in casa, zero vita sociale. A leggere le indagini più recenti, un intero mondo lo proteggeva, tra fruttivendolo e barbiere, dal titolare di una concessionaria di auto alla pensionata. Probabilmente in tanti conoscevano la reale identità di Marco Di Lauro, che - a bordo di un’auto utilitaria - raggiungeva un paio di volte al mese il proprio barbiere di fiducia, il coiffeur di sempre, lì nel cuore del «terzo mondo», limitandosi a poche «uscite» per fatti di natura camorristica. Usava un telefonino di pochi euro - modello in plastica, tutt’altro che smart - per contattare a un orario stabilito il suo braccio destro Salvatore Tamburrino. Pochi minuti, quando era necessario prendere delle decisioni su fatti nuovi, quando era indispensabile un intervento del boss per modellare equilibri dentro e fuori il proprio clan.

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E sono i collaboratori di giustizia a raccontare l’intervento in prima persona di Marco Di Lauro - anno 2011 - dopo l’omicidio Faiello.
In quell’occasione, furono due anziani pensionati a mettere a disposizione la propria abitazione per un chiarimento destinato a siglare la pace tra i Di Lauro e gli ormai ex alleati della Vinella grassi (i girati agli ordini del killer Antonio Mennetta). Un summit reso necessario dal rischio corso dal fratello più piccolo di «f4», ritenuto responsabile di aver sconfinato nella Secondigliano vecchia: quando ormai da tempo, gli amici di calcetto si erano trasformati in pericolosi killer pronti ad uccidere chiunque, pur di rimarcare con il sangue il possesso di una panchina o di un marciapiede in cui spacciare droga. 

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