Bullismo a Napoli: «Uno dei baby bulli si accanì su mia figlia, costretti a cambiare scuola»

Bullismo a Napoli: «Uno dei baby bulli si accanì su mia figlia, costretti a cambiare scuola»
di Giuliana Covella
Giovedì 21 Maggio 2020, 10:00 - Ultimo agg. 22 Maggio, 00:46
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Insulti, spintoni, sberleffi. Un incubo che G., 13 anni, ha vissuto dalle elementari fino al primo anno delle medie, quando è stata costretta, coma già raccontato dal nostro giornale, a cambiare scuola per colpa di quel bullo che la tormentava ogni giorno per i suoi chili di troppo. E a riconoscere quello che per sette anni l'ha mortificata, facendola cadere in depressione e costringendola ad abbandonare compagni e docenti, è stata proprio lei: la ragazza ha infatti rivisto l'ex compagno di classe in quelle immagini diffuse sui social da alcuni giorni, le scene di bullismo della banda di minorenni che ha aggredito un coetaneo nella pineta dei Colli Aminei. «Rivedere quella situazione ha sconvolto entrambe», racconta la madre della 13enne, Vincenza, di professione insegnante, che lancia un appello a scuola e famiglia: «A loro il compito di educare i nostri ragazzi». Intanto l'ex maestra delle elementari di tre di quei bulli ammette: «Due erano bravi e svegli, l'altro ha sempre mostrato un disagio interiore». Il consigliere regionale dei Verdi Francesco Emilio Borrelli con il conduttore radiofonico Gianni Simioli chiedono che «la magistratura apra una inchiesta per capire come sia stato possibile per questi ragazzini agire senza freni nonostante i tanti episodi denunciati».
 


Come ha riconosciuto il ragazzo che era stato il bullo di sua figlia?
«Ho visto quel video per caso e sono rimasta sconvolta, perché ho rivissuto un incubo durato per noi 7 anni».

Quando è iniziato?
«Alle elementari, quando uno di loro, A., era in classe con la mia bambina. Poi si sono ritrovati nella stessa classe alle medie e dopo il primo anno abbiamo deciso di dire basta a quelle vessazioni e mortificazioni quotidiane».

Cosa è accaduto?
«Mia figlia era uno dei bersagli prediletti di A. a causa del suo fisico: la ragazza era un pochino in carne, insomma cicciotella, come tante bambine della sua età. Per questo era finita nel mirino del suo compagno di classe, non rappresentando quello che oggi purtroppo è lo stereotipo femminile delle minorenni sui social. Da qui per anni G. è stata bersagliata da insulti, sfottò, scherzi assurdi come quello di appiccicarle gomme da masticare dietro le spalle o costruire cerbottane con penne e fogli per colpire la compagna più fragile. Episodi che avvenivano fuori e dentro scuola. Fino a quando ha deciso di ribellarsi e dire basta a quel ragazzino che bullizzava lei e altre compagne».

Avete denunciato?
«Sì, ma alle elementari le insegnanti lo giustificavano parlando di iperattività e vani sono stati i miei tentativi di parlare con preside, docenti e genitori. Nulla cambiava e alla fine abbiamo scelto di andare via».

Quali sono state le conseguenza per sua figlia?
«Depressione, ansia, aggressività verso i suoi professori tanto da collezionare in 40 giorni, al primo anno delle medie, decine di note in condotta. Per la sua fisicità diversa a causa dei continui attacchi di quel bullo, mia figlia si è sentita fuori dal gruppo e per difendere se stessa e le altre compagne ha iniziato a rispondere alle provocazioni, fino a essere costretta a lasciare la scuola».

Quanto è durato tutto ciò?
«Fino al novembre 2018, quando finalmente abbiamo ottenuto il nulla osta per cambiare istituto e ricominciare una nuova vita.

Oggi come sta G.?
«Abbiamo ritrovato la nostra pace. Lei è una ragazzina intelligente, altruista, fa la scout e sente molto il senso di appartenenza al gruppo. Quando ha visto quelle immagini e ha riconosciuto il suo ex compagno di classe che faceva del male a un ragazzino indifeso, si è vergognata per i suoi coetanei».

Come prevenire?
«La scuola è la prima a doversi fare carico del problema, dato che insieme alla famiglia ha un ruolo primario nel processo educativo dei minori.
Ma lancio una provocazione: per il recupero dei bulli portiamoli nelle associazioni che si prendono cura di anziani abbandonati o negli ospedali come il Pausilipon-Santobono dove ci sono bambini malati di cancro, non come una punizione ma per far capire loro il vero senso della vita». 

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