«Io, detenuto da un mese: ecco il mio incubo a Dubai»

di Leandro Del Gaudio
Venerdì 17 Gennaio 2020, 07:30 - Ultimo agg. 12 Agosto, 19:17
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Dice di essere sbarcato a Dubai per un viaggio di piacere, assieme alla moglie e ai due figli. Dice di essere un imprenditore napoletano, da tempo titolare di un ristorante pizzeria a Panama, giunto all'aeroporto di Dubai da turista, assieme alla famiglia, con tanto di biglietto di rientro prenotato e di albergo riservato per trascorrere una vacanza. Una storia sempre più strana, un intrigo internazionale che resta tale, a dispetto della fitta corrispondenza che in questi giorni ha riguardato reparti investigativi di Napoli, di Roma e della stessa capitale degli Emirati. A tenere in piedi il caso è una lettera dettata telefonicamente da Domenico Alfano, proprio lui, il napoletano arrestato prima di Natale con l'accusa di essere in realtà Bruno Carbone, broker del narcotraffico, ricercato da anni per ordine del Tribunale di Napoli e di Catania. Una vicenda che si arrotola su se stessa, in attesa di una risposta delle autorità emiratine e - di rimbalzo - delle istituzioni italiane. Un giallo, al momento, fin troppo facile da ripercorrere: pochi giorni prima di Natale - tra il 19 e il 20 dicembre scorsi - Domenico Alfano è stato arrestato a Dubai. Per gli inquirenti non ci sono dubbi: si tratta di Carbone, braccio destro di Raffaele Imperiale, uno che gestisce centinaia di migliaia di euro, trafficando cocaina con il Sudamerica, con i paesi bassi, con l'est europeo. Scattano le manette ai polsi, ma la notizia arriva in Italia solo ai primi di gennaio, con un buco informativo di almeno una decina di giorni. Cosa è accaduto a Dubai? Stando all'interrogatorio di garanzia, ma anche alla denuncia del sedicente Domenico Alfano (a cui è stato consentito di stabilire contatti telefonici con la famiglia, il legale e che è stato visitato dal console italiano), l'interpol avrebbe preso un granchio. Avrebbero arrestato l'uomo sbagliato, o meglio, un soggetto estraneo alle accuse credendolo un pericoloso narcotrafficante. Ed è in questo scenario che si fa avanti un sospetto. È possibile infatti che la polizia emiratina abbia saputo dell'arrivo a Dubai, nei giorni prima di Natale, del latitante Bruno Carbone, con un volo proveniente da Panama. Una traccia investigativa che potrebbe aver spinto le autorità locali a verificare, tramite i terminali, tutti i cittadini napoletani in arrivo da Panama, più o meno della stessa età di Carbone, anche alla luce di una precedente traccia investigativa. Già in un recente passato, Carbone sarebbe arrivato a Dubai sotto falso nome, sempre battendo rotte internazionali legate al sudamerica o all'est europeo. E sarebbe sfuggito agli arresti - secondo un pentito - grazie a una tangente versata da Imperiale in persona. Fatto sta che in questi giorni, anche gli inquirenti napoletani si sono mossi, con un blitz nella casa partenopea di Alfano, nel tentativo di acquisire impronte digitali, fotografie e altri indizi in grado di chiudere il caso, in un senso o nell'altro, sulla cattura messa a segno a Dubai dalle forze dell'ordine locali.

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Ma intanto si leva la denuncia dell'uomo detenuto a Dubai. In sintesi, da quasi un mese, la sua famiglia è in un hotel, mentre lui si trova in cella, alle prese con accuse da brividi: «Mi chiamo Domenico Alfano, sono cittadino italiano, ho una moglie colombiana con cittadinanza italiana e due bambini, una di 13 anni e un altro di 9. Da tredici anni viviamo a Panama. Siamo partiti da Panama il 18 dicembre per una vacanza di trenta giorni qui a Dubai. Possiedo un ristorante pizzeria a Panama Santiago de Veraguas. Abbiamo fatto una sosta in Francia, prima di atterrare negli Emirati, ma quando siamo atterrati è iniziato un incubo. Un uomo con la giacca viene a cercarci e ci invita a seguirlo, passiamo davanti agli altri passeggeri. Alla porta numero due, mi chiedono il passaporto, declino le mie generalità, gli dico che sono Domenico Alfano. Mi dicono di far parte dell'Interpol, ci portano nell'ufficio migrazione: a questo punto, uno dell'Interpol porta mia moglie con i bambini verso una finestra, mentre io seguo attraverso un percorso un altro uomo. Controllano la mia valigia, poi mi portano in un ufficio. Mostro loro la scheda di presentazione del mio ristorante, mentre mi fanno foto, prima di mettermi in una cella. Passano due o tre ore, mi fanno altre foto, mi mettono le manette e mi trasferiscono in prigione».

E non è finita. «Lì, in cella, arrivano altri funzionari dell'Interpol, che mi mostrano le foto di due uomini con due nomi e cognomi diversi, dicendomi che in realtà si tratta della stessa persona. Mi accusano di essere un leader della mafia, che mi stanno cercando da diversi anni. A questo punto, dentro di me, mi sento rassicurato, perché so che hanno sbagliato persona e che prima o poi la cosa verrà fuori.

Intanto, mi prendono le impronte digitali, mi prendono il sangue per fare un test del Dna, mi scattano le foto e mi tranquillizzano: mi dicono di stare calmo, che alla fine - se non sono Bruno Carbone - mi libereranno presto». Un mese dopo, il sedicente Domenico Alfano è ancora detenuto, il caso resta aperto, nell'imbarazzo generale. Ecco il finale della lettera: «Oggi 16/1/2020 sono da 28 giorni in cella, ma non sono la persona che stanno cercando. Tutta la mia vita sta finendo, tutte i miei impegni di lavoro infranti, il danno psicologico alla mia famiglia è indescrivibile, scrivo questa lettera in modo che tutti sappiano la verità sull'incubo che stiamo vivendo».

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