Killer, pusher e vedette: il clan di Maria Licciardi a Napoli, un esercito da 100 affiliati

Killer, pusher e vedette: il clan di Maria Licciardi a Napoli, un esercito da 100 affiliati
di Leandro Del Gaudio
Venerdì 13 Agosto 2021, 23:58 - Ultimo agg. 15 Agosto, 11:00
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Ne hanno censiti un centinaio. Lo stesso numero di dipendenti di un’azienda medio-grande, una di quelle realtà imprenditoriali che hanno consentito il boom del miracolo italiano. Cento affiliati, o giù di lì, sempre a disposizione, persone a cui versare uno stipendio ogni mese e da cui pretendere una prestazione di opera: c’è chi spaccia, chi si occupa dei falsi, chi consuma minacce, chi fa estorsioni, chi - salendo di livello in una sorta di gerarchia criminale - partecipa all’organizzazione di agguati e commette omicidi. Numeri in cui non vanno tenuti in considerazione i presunti concorrenti esterni, come i tanti imprenditori che in questi anni hanno lavorato sotto l’ombrello della cosca.

Un clan da cento e passa affiliati, quello di Maria Licciardi, secondo quanto sta emergendo dalle carte degli arresti della presunta madrina della cupola camorristica napoletana. Numeri da media impresa italiana, che mostrano le radici di un gruppo criminale capace di rigenerarsi nel corso di almeno quattro decenni, a dispetto di arresti, condanne, blitz e sequestri.
L’ultima mossa della Procura - come è noto - risale a sabato scorso, con le manette ai polsi della settantenne conosciuta come la “piccolina”.

Era in procinto di volare per Malaga, dove avrebbe raggiunto la figlia Regina, titolare di un negozio di import ed export a sud di Madrid. Vacanze in un resort turistico, poi la gita nella capitale spagnola, rientro in data da destinarsi. Finita in cella per associazione camorristica e turbativa d’asta (legata al controllo di un’asta giudiziaria in merito all’acquisto di un immobile), oggi la donna deve rispondere di quanto sta emergendo dalle carte della Dda di Napoli. Per diversi mesi, almeno fino ad aprile di quest’anno, sono state intercettate conversazioni, filmati summit di camorra, anche al cospetto di soggetti del calibro di Vincenzo Di Lauro. 

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Da qui, da questa indagine rigorosamente sotto traccia, che è stato possibile far emergere la stima sull’esercito di uomini della dynasty criminale: un centinaio di affiliati, con le rispettive famiglie, in grado di aderire in modo militare alle richieste dei vertici. Tutt’altro che una realtà oleografica, a metà strada tra fiction e retorica gomorroide. Per mesi, gli inquirenti hanno passato al setaccio vaglia e rimesse in carcere (vedi alla voce stipendi di detenuti), hanno ascoltato discorsi sul giro di soldi destinati alle famiglie, hanno seguito le mosse di alcuni soggetti che - proprio come in un’azienda in chiaro - si occupano di contabilità per i propri dipendenti. Difesa dal penalista napoletano Edoardo Cardillo, lady Licciardi punterà probabilmente a fare appello al Riesame per ottenere la scarcerazione, facendo leva su una serie di possibili considerazioni: la storia delle presunte pressioni per la casa messa all’asta sarebbe - in un’ottica difensiva - un intervento in favore del marito della nipote, nulla di riconducibile alla presunta cupola; i soldi ricevuti dal clan Polverino (tra il 2012 e il 2013), furono una dazione di denaro privata, che nulla avrebbe a che vedere con gli accordi tra le famiglie consociate. Versioni difensive a parte, l’inchiesta della Procura di Napoli batte proprio sul potere economico dei Licciardi, prima ancora che su quello militare: restiamo a quei 150mila euro che sarebbero piovuti nelle casse di Secondigliano, grazie all’imprenditore Giuseppe Simioli, oggi pentito anche se un tempo legatissimo proprio al boss Giuseppe Polverino. Quando l’imprenditore si pente, Licciardi si mostra preoccupata, teme che possa venire fuori la storia del prestito: «Simioli? Non l’ho mai visto», dice al telefono, mostrandosi preoccupata comunque per la sua collaborazione con la giustizia. Fatto sta che a partire da quel periodo, la cosca di Secondigliano fa registrare una sorta di boom economico, con una impennata di affari e - di conseguenza - anche di affiliati. 

C’è chi riesce a realizzare una sorta di miracolo americano in forza al gruppo di Masseria Cardone. E anche qui parlano le carte fiscali, i redditi in chiaro, le dichiarazioni presentate ogni anno: ci sono soggetti - si legge agli atti dell’inchiesta - che sono passati nel giro di poco tempo da reddito zero a stipendi da manager; da disoccupati a soci di gruppi imprenditoriali che si occupano di ricezione turistica, di alberghi, di convegni, ma anche di food e turismo. Da niente a tanto, da reddito zero a manager, grazie a una fedina penale intonsa e tanta voglia di mettersi in discussione. Inchiesta condotta dai pm Celestina Carrano, Giuseppina Loreto e Antonella Serio, sotto il coordinamento dello stesso procuratore Gianni Melillo, decisivo il lavoro dei carabinieri del ros agli ordini del tenente colonnello Andrea Manti, un intero tessuto societario viene in queste ore passato al setaccio. Si lavora su presunti prestanome - i manager incensurati - sulla crescita modello sogno americano di alcuni imprenditori a Napoli e in provincia e su quell’esercito di affiliati alla Masseria Cardone. 
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