Camorra, l'ultimo latitante del clan Gionta preso nel fortino del boss

Camorra, l'ultimo latitante del clan Gionta preso nel fortino del boss
di Dario Sautto
Giovedì 7 Gennaio 2021, 09:00 - Ultimo agg. 10:56
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A settembre era stato condannato in via definitiva a 14 anni di carcere, ma si era reso latitante. La scorsa notte i carabinieri hanno atteso il suo ritorno a casa per la chiusura delle feste per l'Epifania e l'hanno catturato. È finito in carcere, per scontare un residuo di pena di quattro anni di reclusione, Raffaele Sperandeo, 43 anni, pluripregiudicato di Torre Annunziata, cognato del boss poeta Aldo Gionta. Era lui uno dei capi del cartello formato dai Gionta con i Nuvoletta di Marano e i Di Gioia di Torre del Greco per importare cocaina dal sud America. E per questo, lo scorso settembre la Corte di Cassazione aveva confermato la condanna a 14 anni di carcere. Nel frattempo, però, Sperandeo assistito dall'avvocato Ciro Ottobre aveva ottenuto la scarcerazione per decorrenza dei termini di detenzione ed era tornato libero. Anche perché una parte della pena da espiare l'aveva già scontata. La condanna definitiva aveva spinto Sperandeo a sottrarsi alla cattura e avviare una latitanza, durata poco più di tre mesi. Come è accaduto per tanti altri camorristi, il richiamo delle festività e della famiglia è costato la fine della latitanza e la conseguente cattura. Così è successo la scorsa notte anche per Sperandeo, che stava tornando a casa, nel rione Carceri di Torre Annunziata, il quartiere roccaforte del clan Gionta. Sotto l'abitazione, però, ad attenderlo c'erano i carabinieri della stazione oplontina, che erano impegnati in alcuni controlli del territorio. Hanno visto il 43enne, l'hanno riconosciuto e subito bloccato. Dopo l'identificazione, Raffaele Sperandeo è stato accompagnato nel penitenziario di Secondigliano dove sconterà il residuo di pena di poco più di quattro anni di reclusione per associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti.

Dopo due anni di latitanza, lo scorso 28 dicembre era stato catturato il boss gragnanese Antonio Di Martino.

Adesso, il reggente del clan Di Martino ha deciso di confessare le estorsioni e di risarcire la vittima. Una scelta che sarà formalizzata nei prossimi giorni, ma che è stata anticipata dal suo legale, l'avvocato Antonio de Martino, al sostituto procuratore Giuseppe Cimmarotta, che ha coordinato le indagini che hanno portato alla sua cattura da parte della polizia. Cento uomini messi in campo dalla squadra mobile di Napoli, dal commissariato di Castellammare di Stabia e dagli specialisti del Nocs, che hanno perlustrato i boschi durante la piovosa notte dell'ennesimo tentativo di fuga del figlio del capoclan Leonardo Di Martino, bloccato dopo due ore nella «foresta» di quella che è considerata la Giamaica dei Lattari, tra Gragnano e Pimonte. Lo scorso 31 dicembre, Di Martino è comparso dinanzi al gip per l'interrogatorio di garanzia, ma si è avvalso della facoltà di non rispondere. Una scelta che anticipa il passo successivo in vista del processo. Antonio Di Martino era latitante dal 5 dicembre 2018: era sfuggito alla cattura nell'operazione «Olimpo», con l'Antimafia che aveva ricostruito la rete delle estorsioni che vede impegnati quattro clan di camorra nell'area stabiese, con il «re del latte» Adolfo Greco a tessere trame tra imprenditoria e camorra, dall'alto della sua amicizia di vecchia data con il superboss Raffaele Cutolo. Lo stesso Greco finì in carcere e in questi giorni sarà nuovamente in aula, nel corso del processo che lo vede tra gli imputati accusato di aver veicolato alcune estorsioni ai danni di due imprenditori amici, secondo l'accusa in una sorta di trattativa per favorire la camorra. 

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Nel corso delle indagini partite nel 2013, gli investigatori avevano ricostruito anche un episodio di estorsione a Gragnano ai danni di un grosso pastificio. Protagonista della vicenda sarebbe proprio Antonio Di Martino, che avrebbe incassato il pizzo da un imprenditore per il tramite di uno dei suoi dipendenti, passando per i lavori di messa in sicurezza dell'edificio principale della fabbrica. Un episodio per il quale sono stati già condannati gli altri indagati. 

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