I dannati di agosto a Poggioreale

di ​Aldo Masullo
Giovedì 3 Agosto 2017, 08:35
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Quando a luglio comincio a sentire sul collo il fiato rovente del sole estivo, io non posso fare a meno di pensare alle persone rinchiuse nelle patrie galere. Nel mondo dei liberi, mentre la temperatura sale, i più progettano le fughe verso i refrigeri marini o le mitezze montane, e man mano lasciano lavoro, affari, città. Nelle carceri invece il disagio fisico e morale fatalmente cresce fino a diventare insopportabile. Le sofferenze dei corpi inaspriscono, e l’impossibilità di sottrarvisi esaspera la pena. Molto più che la privazione della libertà, giustificata (purtroppo non sempre!) dalla trasgressione compiuta, ferisce come un’onta gratuita la privazione dell’intimità. In carceri sovraffollate, spesso con i letti a castello e magari la latrina in bella vista, ogni uomo è esposto alla vista degli altri, espropriato del proprio corpo a favore di occhi estranei, indiscreti, a volte sadici. Il caldo estivo acuisce la vergogna della promiscuità. E’ questo il tempo in cui, sotto il cruccio dell’impotenza a difendersi, rinforzata dal collettivo malessere, ben potrebbe nelle carceri serpeggiare la tentazione della rivolta.

Perciò qualche giorno fa si è letto con particolare interesse un comunicato Ansa, in cui il direttore del carcere di Poggioreale lancia sobriamente l’allarme sulla condizione dei detenuti che in questo momento ne sono gli ospiti coatti, ben 2100 su 1500 posti disponibili, essendo due reparti in ristrutturazione. La stagione estiva con i suoi eccessi climatici rende ancor più difficile la vita dei reclusi, soprattutto quando in un’unica stanza, dotata di un solo bagno, sono costretti in 4 o 5, il che non può non alimentare sia pur «piccole tensioni». Tuttavia il direttore rassicura: «Io dialogo, anche in gruppi, con tutti e non ci sono state proteste». 

Così ancora una paradossale contraddizione agita le cronache di questo nostro bizzarro Paese. A Roma, dinanzi alla sede solenne della massima istituzione rappresentativa della sovranità popolare una piccola folla di cittadini liberi e facinorosi lancia invettive e minacce contro i deputati, che hanno votato una legge sui vaccini, bene o male un adempimento doveroso dello Stato a tutela della salute pubblica. A Napoli invece i detenuti di un grosso e vecchio carcere, pur afflitti dai tormenti della loro situazione, discutono pacatamente con chi ha l’ingrato compito di custodirli, e mostrano un’intelligenza del diritto che oggi non pochi cittadini liberi vanno perdendo, o forse non hanno mai avuto.

Poco civili i cittadini liberi, civilissimi i reclusi! Non si può non chiedersi come e perché nell’Italia pubblicizzata dalla retorica della “grande bellezza”, espressione sinonima di ordinata armonia, possano prodursi così vistose disarmonie sociali, situazioni a parti rovesciate, rudi smentite della comune ragionevolezza. 

Come si spieghi la prima parte del paradosso, la frequente mancanza di senso civile in persone libere, è il problema di tutta la nostra storia, riacuito negli ultimi decenni. Ma la seconda parte del paradosso, l’atteggiamento dei carcerati, assai civile nonostante le sofferenze imposte dai gravi difetti del sistema, interroga la coscienza di noi tutti e ci costringe a riconoscere un sorprendente cambiamento. Oggi le carceri sono abitate sempre meno da moltitudini di sventurati, riottosi e arrabbiati, ognuno chiuso nel ruminio della propria disgrazia, e sempre più invece da un popolo di cittadini, che discutono le ragioni della loro pena e, confrontando il proprio debito con il comune bisogno di giustizia, non inveiscono contro la severità dello Stato ma, criticandone ragionatamente le inadempienze, reclamano i propri diritti. 

Nelle carceri è entrato il «dialogo»! Oggi in nessun altro luogo del mondo, io credo, come nelle carceri italiane, si sviluppa e si mette alla prova la coscienza popolare che lo Stato o è stato di diritto, oppure non ha alcuna legittimazione. L’atteggiamento della collettività dei detenuti, segnalato dal direttore del carcere napoletano, non è isolato né casuale. Esso è il punto di arrivo di un processo di formazione che Marco Pannella inaugurò e che un pugno di “radicali” continua a promuovere e alimentare, prima fra tutti Rita Bernardini.

È di questi giorni la partenza da Napoli della seconda «carovana della giustizia» che, dopo la prima in Calabria, compirà il giro della Sicilia, sostenuta come sempre dagli avvocati delle Camere penali. Vari sono i suoi obiettivi di politica della giustizia. Di essi il primo e fondamentale è ancora e sempre, come nell’instancabile, puntiglioso impegno di visitare le carceri, il trarre i detenuti fuori dal cono d’ombra della loro separatezza dalla vita collettiva. La detenzione è una vita congelata, un tempo sospeso. Come potrà un individuo, appena restituito alla libertà, rientrare attivamente nella vita sociale, se per un lungo, a volte lunghissimo periodo ha perduto il passo della dinamica civile, non ha più lavorato, né pubblicamente discusso sui problemi emergenti, né ha potuto percepire il nascere delle nuove sensibilità, e addirittura dai suoi concittadini è percepito come un estraneo da evitare e da escludere?

Il punto è tutto qui. Se detenzione e partecipazione non si saldano in un circuito continuo, allora il principio della doverosa «rieducazione del condannato», tanto declamato nella sua perentoria formula costituzionale quanto finora assai poco praticato, non può che restare lettera morta. Quando il direttore del carcere napoletano oggi dice con malcelato ma giusto orgoglio che, pur tra le penose difficoltà in atto, «non ci sono proteste» dei detenuti» ed egli stesso «dialoga» con loro, si attesta che uno spirito nuovo comincia ad animare il mondo carcerario. Siamo appena all’inizio, ma non si può disconoscere che a suscitare questo difficile inizio, dopo la lontana stagione della riforma Gozzini, è stata l’azione radicale: essa ha avviato le folle di detenuti, umiliate dalla forzata passività, a trasformarsi in un affatto inedito soggetto attivo della vita civile. Con ciò si è anche incoraggiata la maturazione di una nuova coscienza istituzionale, che va dallo stile della direzione ministeriale all’atteggiamento professionale dell’intera gerarchia della custodia, alla recentissima riforma legislativa, per la cui tempestiva normazione applicativa Rita Bernardini è di nuovo sul piede di guerra e la «carovana per la giustizia» intende con forza rilanciare l’appello.

Il diritto nelle carceri è oggettivamente tra le cocenti questioni che invocano il pieno compimento dello Stato di diritto. 
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