Castellammare e la borghesia contaminata dalla camorra imprenditrice

di Isaia Sales
Lunedì 10 Dicembre 2018, 08:00
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Di cosa parliamo quando parliamo di camorra? I fatti di Castellammare di Stabia ci obbligano ancora una volta a rispondere a questa complicata domanda. Perché la criminalità camorristica si presenta frammentata nelle forme organizzative e variegata nelle modalità di agire sfuggendo a qualsiasi definizione che provi a inchiodarla ad una immagine stabile e definitiva. Una criminalità complessa da decifrare e di difficile comparazione con quanto si sa del comportamento abituale delle famiglie mafiose o ndranghetiste. Quelli che a Castellammare usano il tradizionale falò della festa dell'Immacolata per inviare una minaccia di morte ai pentiti (bruciando su di una catasta di legna un manichino che li raffigura e scrivendo che finiranno abbruciati) sono camorristi? E di che tipo? Copiano tipiche modalità di comunicazione criminale o si adattano alle forme vigenti nell'epoca del dominio dei social e dell'immagine, dove chi non comunica non è? È un segnale di sfida sfrontata alle istituzioni repressive, o un segno di debolezza?

Sta di fatto che il falò camorristico si è prodotto dopo che alcuni collaboratori di giustizia hanno consentito di assestare dei colpi notevoli a diversi clan egemoni nella zona con il coinvolgimento nelle attività criminali anche di alcuni imprenditori. È vero, d'altronde, che analoghe forme di protesta si sono verificate anche in altre organizzazioni criminali di tipo mafioso. La mafia siciliana, ad esempio, ha fatto ricorso negli ultimi anni a modalità non usuali di manifestazione del pensiero dei suoi associati un tempo abituati a maggiore discrezione e sobrietà. Nel dicembre del 2002, allo stadio Renzo Barbera di Palermo si giocava Palermo-Ascoli, diciassettesima giornata di campionato della serie B. All'inizio della gara dalla curva sud compariva uno striscione che recitava: «Uniti contro il 41bis. Berlusconi dimentica la Sicilia». Il partito di Berlusconi, Forza Italia, alle elezioni politiche del maggio 2001, aveva ottenuto nell'isola l'incredibile risultato di conquistare tutti i seggi parlamentari, e secondo il parere degli estensori dello striscione aveva tradito gli impegni a rivedere le modalità del carcere duro per i mafiosi.

L'organizzatore della singolare protesta era Francesco Urso, figlio del boss di Brancaccio, Giuseppe, e cognato di Cosimo Vernengo, condannato all'ergastolo per la strage di Via D'Amelio. Il 5 novembre scorso cinque dipendenti dell'ufficio postale di Pieve Modolena, una frazione di Reggio Emilia, sono stati presi in ostaggio da Francesco Amato dopo la sentenza del processo Aemilia sulla presenza della ndrangheta al Nord. L'uomo intendeva protestare contro la condanna a 19 anni di carcere per essere stato parte della famiglia ndranghetista del boss Nicola Grande Aracri. E a Roma i membri della famiglia mafiosa dei Casamonica hanno inscenato manifestazioni di protesta dopo l'abbattimento delle loro case abusive costruite a ridosso di un acquedotto di epoca romana. E quando fu arrestato Cosimo Di Lauro nel 2005 ci fu una protesta di 400 persone, in gran parte donne, che si radunarono sotto la casa del giovane boss inveendo e scagliando oggetti contro i militari e le loro auto.

Insomma, anche la messinscena del falò di Castellammare si inserisce nelle proteste spettacolari avvenute negli ultimi anni a seguito di efficaci azioni repressive delle forze dell'ordine. Sembra più una impotente maledizione ai pentiti che una sfida allo Stato. Su questo punto ha pienamente ragione il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho. I mafiosi e i loro accoliti protestano con rabbia perché si è interrotta la loro lunga impunità storica, e scelgono le forme più eclatanti per avere maggiore risalto sui social e sui media. Tutto ciò è segno di debolezza e non di forza.

Sui fatti di Castellammare si possono fare anche altre considerazioni. Sono impressionanti le somiglianze tra il modo di agire dei clan stabiesi (e della fetta di popolazione che orbita attorno) con il contesto sociale e abitativo in cui operano i clan di Napoli città. Una somiglianza che riguarda anche le cittadine sul mare che in continuità urbanistica prolungano la periferia napoletana fino all'inizio della costiera sorrentina. Anche qui troviamo un contesto sociale ed economico non dissimile, quartieri-ghetto, casermoni e case popolari dominate dall'economia della droga, veri e propri «quartieri-Stato», in cui i clan si atteggiano ad organizzazioni parastatuali, in quanto essi si presentano come assoluti dominatori delle strade, come esattori delle tasse (con le estorsioni), e come distributori di ricchezza e di opportunità: attorno all'economia criminale gira gran parte dell'economia di quei rioni. Ma anche qui appare del tutto evidente che pur muovendosi in un ambiente sociale disagiato e deprivato di altre possibilità, i camorristi sono in grado di stabilire relazioni con svariati circuiti economici legali e con ambienti politici con i quali trattano alla pari. È sorprendente vedere come persone socialmente ai gradini più bassi della società riescano attraverso la violenza a salire ai gradini più alti e a mischiarsi con parte dei ceti produttivi, con parte della borghesia delle professioni e con parte del ceto amministrativo e politico locale. La forza di questa «violenza ascensionale» da dove deriva? La violenza fisica non è in grado di conseguire da sola un così ampio successo sociale. E allora? E allora bisogna domandarsi di che pasta è fatto quel tessuto economico e quel sistema politico che consente a tanti violenti di essere accettati come parte integrante del loro sistema di valori e di riferimento. È il lato oscuro di questi mondi legali che non si mostra alternativo o in opposizione ai valori della violenza criminale. L'esercizio della violenza è un elemento necessario ma non sufficiente per spiegarcene «il successo». La loro è una «violenza di relazione e di mercato», cioè capace di relazionarsi con coloro che dovrebbero combatterla e con gli operatori legali dell'economia. E Cafiero De Raho ha ancora più ragione nel segnalare il calo di attenzione che negli ultimi tempi si va registrando attorno ai fenomeni mafiosi. Come se la nazionalizzazione delle mafie (evidente nella conquista di tanti territori del Centro-Nord) e la sempre più evidente loro presenza nel cuore dell'economia italiana abbia prodotto un effetto di «normalizzazione». Quasi che si accettasse come un dato inevitabile la presenza mafiosa in alcuni settori economici dove gira una parte non secondaria della ricchezza nazionale. L'accettazione formale si interrompe solo quando viene alla luce grazie all'azione giudiziaria. Guai a quella nazione che ha bisogno della magistratura per accorgersi dei suoi mali.
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