Una rete di imprenditori conniventi, un tesoro da gestire e - soprattutto - una “mente raffinatissima”, capace di dribblare intoppi burocratici, regolamenti vari, e persino la rigorosissima normativa del codice degli appalti. Eccolo, il segreto dei Moccia. Svelato nelle duemila pagine di un’ordinanza monumentale, che grazie al lavoro di carabinieri e finanzieri coordinati dalla Procura guidata da Giovanni Melillo ha scritto una pagina importante, descrivendo come un clan di camorra da Afragola sia riuscito ad espandersi, a costruire un impero economico-finanziario capace di muovere centinaia di milioni di euro, riuscendo a corrompere anche insospettabili personaggi e inquinando così per anni l’economia legale di un’intera nazione.
Lo spaccato forse più inquietante è quello descritto dagli inquirenti in relazione alla pervasività della cosca in materia di appalti. «I Moccia - si legge nei verbali dell’inchiesta - sono a pieno titolo coinvolti in alcune associazioni temporanee di impresa attraverso soggetti imposti, assumendo il ruolo di investitori occulti nei singoli lotti dei lavori attraverso le aziende che formalmente costituivano i raggruppamenti. Disponendo di ingenti capitali sostenevano le spese di gestione generali previste dalla legge, sbaragliando di fatto la concorrenza e presentando offerte al ribasso d’asta più conveniente per la stazione appaltante».
Ed eccola, la mente raffinatissima che faceva da tesoriere e manager della “premiata camorra afragolese spa”: Giovanni Esposito, classe 1954, detto ‘o studente, un soprannome evidentemente non nato dal nulla. «Imprenditore di riferimento per la famiglia Moccia», lo definisce il gip. Un uomo capace di riciclare somme da capogiro, il custode della cassaforte del clan, il programmatore di investimenti capaci di moltiplicare i fatturati illeciti. Esposito intuisce che quelli offerti dalla Rete Ferroviaria Italiana (estranea ai fatti contestati agli indagati) possono trasformarsi in una manna, e che persino la norma che regola l’accordo quadro può essere aggirata, trasformandolo in un «contenitore» abbordabile attraverso i contratti applicativi. Fioccano così, grazie al sistema dei subappalti e di quella rete di imprenditori conniventi con il clan, gli affari. Vagonate di milioni che entrano nelle casse dei Moccia. Dai lavori per la stazione dell’Alta Velocità di Afragola (con relativi parcheggi) alla manutenzione di altre tratte ferroviarie, nel Casertano, nel Beneventano e nel Lazio.
Dagli affari ai favori, e ai condizionamenti che prevedevano ovviamente anche assunzioni di figli degli amici e degli affiliati: «Lo dissi a Mimmo di sistemare il figlio di Domenico Cimini (altro indagato), glielo dissi io con chi doveva parlare per farlo entrare nell’azienda di vigilanza anticendio, o da qualche altra parte...». Potenza maligna della camorra.
Ma per far chiudere il cerchio, soprattutto per riuscire a prendere le ghiotte commesse della Rete Ferroviaria, bisognava anche corrompere le persone giuste, quelle che contavano e che nella fase dei controlli avrebbero saputo chiudere tutti e due gli occhi. E qui entrano in gioco - sempre stando al quadro accusatorio - le figure di due funzionari di Rfi, Salvatore Maisto e Stefano Deodato. «Abbiamo i contratti!», esulta, ignorando di essere intercettato, Angelo Esposito, figlio di Giovanni, che di suo replica: «Allora io vado a fare il lavoro, facciamo 50 e 50 per cento per uno».
Per gli appalti di Rfi, i Moccia si avvalevano - secondo la Procura - dunque di un gruppo di imprenditori ritenuti legati al clan, le cui imprese possedevano regolari titoli e certificazioni antimafia. E potevano contare sulla complicità dei due funzionari dell’unità territoriale di Napoli Est, ora accusati di corruzione. Avrebbero intascato in diverse tranches 29mila euro. Altra intercettazione: «Gli alzai la pettola del giubbino - dice sempre Giovanni Esposito, riferendosi a uno dei due responsabili - e dissi: Dottò, vi volevo regalare un bel viaggio per le ferie, ma non sapevo quale destinazione preferivate». Ed ancora, dopo una dazione: «Tremila euro, gli ho dato - prosegue, riferendosi a Deodato - e quello nemmeno grazie mi ha detto».
Nel libro paga dei Moccia ci sarebbe poi anche un tecnico dipendente di una società fornitrice di strumentazione idonea alle intercettazioni a varie polizie giudiziarie e autorità giudiziarie, che si sarebbe prestato per bonificare dalle microspie gli uffici di alcuni imprenditori: per lui l’accusa è di favoreggiamento. La bonifica viene effettuata negli uffici di una delle società del gruppo, la Kam Costruzioni - una di quelle interessate dai subappalti - ma terminata la ricerca delle microspie poi le cimici non vengono rimosse quasi come se si volesse evitare di destare ulteriori sospetti negli investigatori. «Andiamo giù a prendere un caffè», diranno gli indagati i giorni successivi alla scoperta delle cimici nell’azienda. Per poi lamentarsi dell’invasività della polizia giudiziaria: «Questo della Dia doveva andare a mettere le microspie proprio qua dentro». Del resto c’era tanto da nascondere: il subappalto che è stato poi affidato alla Kam Costruzioni equivaleva a quasi due milioni di euro.
Centrale nell’inchiesta resta il ruolo di Esposito, che può definirsi un vero e proprio amico del cuore di Angelo Moccia. Un’amicizia cementata anche grazie a vacanze extralusso. Insieme alle rispettive compagne, Angelo Moccia e Giovanni Esposito, sono stati protagonisti di una vacanza da mille e una notte a Dubai. Il soggiorno in una suite da 2mila dollari a notte in un albergo «cinque stelle superior», di certo, potevano permetterselo.