Coronavirus a Napoli, il coraggio di Ida: «Dal Monaldi al Cotugno, ho chiesto io di passare sul fronte»

Coronavirus a Napoli, il coraggio di Ida: «Dal Monaldi al Cotugno, ho chiesto io di passare sul fronte»
di Giuliana Covella
Sabato 28 Marzo 2020, 09:30
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«Quando sono entrata in una di quelle stanze e ho visto un giovane di 28 anni chiedermi per favore, mi può cambiare il lenzuolo?, ho letto l'angoscia nei suoi occhi e la mortificazione per l'effetto collaterale provocato dal farmaco. In quel momento ho capito di aver compiuto la scelta giusta, quando ho chiesto di essere trasferita dal Monaldi al Cotugno». Ida Carrano, 42 anni, separata e madre di due bambini di 9 e 12 anni, ha scelto di sottrarre tempo ai suoi affetti familiari pur di prendersi cura insieme a tanti altri infermieri e medici dei malati di Coronavirus ricoverati nel presidio sanitario dell'azienda dei Colli. Da 23 anni accudisce gli ammalati di tutta Italia (l'ultimo trasferimento qualche anno fa da Varese a Napoli), Ida ricorda l'inizio della sua carriera: «Avevo 19 anni quando iniziai il corso per diventare infermiera all'ospedale Gesù e Maria. Ero andata solo ad accompagnare un'amica. Capii che quella era la mia strada, quando seppi di aver superato l'esame».
 

Com'è arrivata al Cotugno?
«Il primario del reparto Malattie respiratorie del Monaldi, Giuseppe Fiorentino, venne un giorno e ci disse: chi vuole seguirmi al Cotugno nella Sub-intensiva?. Premesso che non ho mai pensato né ad aumenti di stipendio né alla visibilità, ho scelto volontariamente di andare con lui insieme a un altro collega. In realtà volevo andare in Lombardia, per dare una mano ai colleghi che sono in affanno negli ospedali delle città più colpite dalla pandemia, ma avendo due bambini non ho potuto chiedere il trasferimento».

Che turni fa?
«Oltre alla mattina (7-14, ma anche oltre le 15 quando c'è necessità) e al pomeriggio (14-20), ho dato la mia disponibilità il sabato e la domenica. Ma se ci sono straordinari da fare, ripeto, nessuno di noi si tira indietro».

Come ci si sente ad assistere questi pazienti?
«Non nascondo che è avvilente. Ma ho messo da parte la paura, dato che ho scelto di catapultarmi in questa dimensione insieme a un medico».

Che tipo di storie hanno le persone che assiste?
«Molti si sono ammalati contemporaneamente ad altri familiari. Come un ragazzo del '92, che è ricoverato insieme al papà (ovviamente in stanze separate). Quando sono entrata nella stanza un giorno l'ho trovato che usciva dal bagno, tossiva ed era senza mascherina. Mi domandò con timidezza un lenzuolo pulito, perché la terapia col farmaco anti artrite comporta effetti collaterali come la diarrea. Dopo mi chiese di parlare un po', spiegandomi che tutto era iniziato con febbre e tosse. In quell'istante ho visto il senso di angoscia in un ragazzo giovanissimo. Poi un uomo che mi fece mandare un messaggio con un cuore alla moglie. O un anziano che aveva fastidio col casco in testa e per scherzare gli dissi oggi ve lo tolgo. Lui mi prese la mano e la baciò. Questo per dire che il virus non bada all'età, come molti erroneamente credono».

Come fa a conciliare lavoro e famiglia?
«I miei fratelli vivono al nord. Ma per fortuna il mio ex marito bada ai nostri figli mentre io sono in ospedale».

Non ha paura di contagiarli?
«Quando rincaso lascio le scarpe fuori la porta, faccio una doccia e disinfetto tutto con la candeggina. Ma va detto che nessuno di noi è immune da questo virus». 
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