Coronavirus a Napoli, l'amore di Lino: «Un sms a mia moglie, poi entro in quella tenda e incoraggio i pazienti»

Coronavirus a Napoli, l'amore di Lino: «Un sms a mia moglie, poi entro in quella tenda e incoraggio i pazienti»
Lunedì 30 Marzo 2020, 09:00
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«Prima di entrare in tenda mando un messaggio sul cellulare a mia moglie, poi comincio la vestizione». Lino Marciano, da 14 anni infermiere all'ospedale San Paolo, sa perfettamente che, da quel momento, per le successive sei ore, non potrà spostarsi dalla tendostruttura attrezzata per i pazienti Covid-19, all'esterno del presidio. Lavorare in pronto soccorso è sempre stata la sua passione ma l'emergenza «ha cambiato tutto, sia nelle modalità dell'assistenza infermieristica che nella vita privata».
 

Lei è un tendiere, gergo che indica i sanitari impiegati nelle tendostrutture Covid. Cosa significa?
«Dall'ultima settimana di febbraio, lavoro a turnazione nelle tre tende attrezzate con tutti gli strumenti del pronto soccorso e la possibilità di intubare i casi più critici. All'arrivo di un paziente, effettuo un pre-triage all'esterno della struttura, per valutare la sintomatologia e ipotizzare un caso di sospetto Covid. Ormai il 90% degli assistiti necessita della sosta in tenda per effettuare i primi esami, tra cui l'elettrocardiogramma».

Che cosa accade dopo?
«Faccio tutto ciò che ho sempre fatto in pronto soccorso, ma con più difficoltà nei movimenti per i dispositivi di protezione che indossiamo. Il paziente viene smistato in una delle due tende verdi o, in casi più critici, nell'area rossa della tendostruttura per essere intubato. Dopo l'assistenza in tenda che può durare alcuni giorni, avviene il trasferimento negli ospedali dedicati. Quando non ritrovo più un paziente che avevo assistito nella tenda, non posso fare a meno di farmi mille domande su come possa stare perché questa emergenza ti coinvolge emotivamente.

Ci può raccontare il rapporto coi pazienti Covid?
«I pazienti arrivano in ospedale smarriti e impauriti. La prima domanda che fanno tutti, riguarda la possibilità di essere infetti e vorrebbero saperlo subito. Ho acquisito dimestichezza nel riconoscere i sintomi ma spiego sempre che non possiamo avere certezza senza esami e tampone, per questo cerco anche di tranquillizzarli e di infondere loro sicurezza. Non hanno possibilità di avere accanto i familiari e quando parlo con i parenti, che dobbiamo allontanare, mi distanzio di circa 3 metri perché chi è nella tenda come me, non può rientrare in reparto e non può fare nulla finché non si sveste».

Lei come reagisce a questa emergenza?
«Devo ammettere che tutta questa sofferenza mi sta lasciando il segno e non dimentico nessuno dei nostri pazienti. Inizialmente arrivavano un paio di persone al giorno, adesso almeno 10. Ciò che mi preoccupa è aver visto come, a volte, la situazione dei ricoverati per Covid possa precipitare nel giro di mezz'ora. Ricordo bene un napoletano di 55 anni che non aveva nessuna criticità e all'improvviso si accasciò. Quella volta, è stata una corsa contro il tempo e lui ce l'ha fatta. Per noi è stata una vittoria, questo mi dà la forza di continuare».

E la paura?
«Il nostro mestiere comporta da sempre dei rischi. La mia paura è, eventualmente, contagiare la mia famiglia. Mia moglie è infermiera e avevo proposto ai miei due figli di fare la quarantena dai nonni per sicurezza. Mi hanno risposto che siamo una famiglia e dobbiamo rimanere uniti anche se non ci possiamo più abbracciare. La mia vita familiare si è stravolta. Mi fa soffrire la distanza dai miei genitori ma, al tempo stesso, loro e la forza di mia moglie e i miei figli, mi danno coraggio per continuare a dare il massimo nel lavoro che amo». 
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