Covid a Napoli: «Noi dottoresse in trincea, il Covid non è un'influenza»

Covid a Napoli: «Noi dottoresse in trincea, il Covid non è un'influenza»
di Ettore Mautone
Venerdì 6 Novembre 2020, 08:30
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Nunzia, Rita, Marina, Simona: dottoresse in prima a linea, anestesiste di trincea contro il Covid. Il lavoro, la famiglia, le ansie, le paure, la vita in bilico e i pazienti intubati. Chi guarisce e chi ne esce morto. La prima ondata, il nemico sconosciuto e ora il virus che ritorna con i grandi numeri e sempre con lo stesso profilo di imprevedibilità e di cattiveria. «Questo è un virus che non sai mai come prendere - avverte Nunzia Minale, 52 anni, sposata e una figlia 17enne - si divide tra una delle due rianimazioni Covid del Cotugno e la cardiochirurgia del Monaldi - il profilo di malattia è aggressivo, si insinua nei polmoni ma sfugge continuamente di mano, richiede continui aggiustamenti di terapia e farmaci a 360 gradi. In poche ore la situazione può precipitare verso il baratro. L'impegno da parte nostra è massimo. Vivere otto ore con la tuta e la vita del malato tra le mani è uno stress enorme. La malattia è lunga, gli arrivi continui. Non dipende sempre dall'età, a volte chi è sano va peggio e chi scassato se la cava. Il problema è sempre in agguato, risolvi la pancreatite o la miocardite e sopraggiungono le trombosi, risolvi quelle e si scoagula. Le decisioni da prendere sempre difficili, i dubbi tanti».

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«In rianimazione si lavora in apnea - aggiunge Simona Risorto, sposata, tre figli dai 9 ai 14 anni - all'inizio si soffriva per i turni incalzanti». Simona lavora a stretto contatto di gomito con Nunzia: «A marzo l'impatto è stato molto forte, non sapevamo cosa ci aspettava e avevamo la sensazione di un clima di guerra sperando di tornare a casa. Adesso siamo più consapevoli. Quello che mi stupisce ancora di questo virus? L'aggressività e il modo repentino con cui può annientare una persona sana mentre al contempo risparmia tanti altri. Chi va male degenera in pochissimo tempo. Per i parenti è sempre uno choc. Siamo solo noi a interfacciarci con i malati e i loro familiari. Alcuni hanno il terrore dell'incoscienza, di essere intubati e restano strenuamente attaccati alle maschere a ossigeno come a un'ancora di salvezza. Altri quando arrivano in fase di valutazione per essere intubati sono increduli». Tre figli anche per Marina Capuano, dirigente anestesista presso la rianimazione del vecchio Cotugno, diretta da Fiorentino Fragranza. «Lo stress maggiore - avverte - è quando i pazienti peggiorano nell'arco di pochi giorni, sono gravi, la sintomatologia molto aggressiva, la gestione difficile, sorgono complicanze di ogni tipo.

Questi malati richiedono un impegno costante. Ho una lunga esperienza anche in grandi politraumi ma questa è la prova più difficile». 

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«Dall'esterno nessuno può concepire e capire perché vede gli asintomatici o al più qualche febbre. No, non è affatto un'influenza». La più arrabbiata è Rita Anfora, 46 anni, 18 di servizio, al Cotugno da 2: «L'altra notte abbiamo salutato l'ennesimo padre, marito, amico, fratello, l'ennesima telefonata. Non ce l'ha fatta. Il mio lavoro non è questo, non ci si abitua, lottiamo per la vita e tutte queste morti inesorabili che prescindono dall'età, tutte queste complicanze devastanti ci frustrano umanamente prima che professionalmente. A marzo avevamo adrenalina più che paura, ora l'adrenalina è finita e siamo stanchi e molto demotivati dalla noncuranza della gente, dalle chiacchiere, dall'inefficacia delle cure. Come aiutarci? Rispettando le regole: distanziamento, mascherine e evitando uscite non indispensabili». Giulia 13 anni, la piccola di casa a marzo scriveva su Facebook. «Per capire chi sono i veri su questo pianeta abbiamo dovuto aspettare un virus. Prima gli eroi erano le persone famose, ora sono i medici».

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