Coronavirus a Napoli, la nuova sfida del Cotugno: contro il trauma da Covid medici e malati in terapia

Coronavirus a Napoli, la nuova sfida del Cotugno: contro il trauma da Covid medici e malati in terapia
di Ettore Mautone
Sabato 20 Giugno 2020, 10:00
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Al Cotugno, da marzo scorso, è nato un gruppo di decontaminazione emotiva: non è un sistema di sanificazione ma un qualificato centro di ascolto psichiatrico per operatori e pazienti Covid. Un servizio nato alla fine degli anni '90 per affrontare il fenomeno sociale e clinico dell'Aids e dare una risposta allo stigma sociale dell'Hiv. Durante l'emergenza Covid-19 ha cambiato pelle. L'unità è formata da un pool di specialisti afferenti all'Unità di Psichiatria di consultazione guidata da Giuseppe Nardini. Un team formato da 5 psichiatri con formazione psicoterapica (Alessandro Colucci Giovanna Geri, Vincenzo Scarallo e Piera Tosini), tre infermieri (Anna Manfrecola, Sandra Saggese, Alda Valletta), un caposala (Gaetano Spiezia). Oltre duecento le storie di camici bianchi e malati raccolte in poco più di tre mesi. «I primi tempi sono stati duri - avverte Nardini - da un lato gli operatori, irraggiungibili, immersi nelle cure, dall'altro i pazienti, lontani, isolati, di cui era difficile anche avere il numero di telefono». Un servizio collocato in un corridoio, tra la parte amministrativa e i reparti: «Quando tutto l'ospedale ha cominciato a riempirsi - continua Nardini - ci siamo spostati in un'area esterna, i reparti erano muti. Dovevamo cambiare. Anche gli anziani, con più esperienza, una cosa del genere non l'avevano mai vista. La pressione era micidiale. Decidemmo di dare un supporto: lo abbiamo chiamato decontaminazione emotiva».
 

 

L'ascolto dei pazienti è fondamentale: «I malati riuscivano ad attingere a risorse proprie per rispondere allo stress e noi trasferivamo queste capacità ad altri». Per molti c'era il pensiero fisso dei parenti a casa. I figli soli, il padre malato, un coniuge positivo ma asintomatico. C'era anche chi, durante la degenza, è stato raggiunto dalla drammatica notizia della morte di un congiunto, chi ha saputo del ricovero di un familiare poi finito senza poterlo salutare. Ecco le parole di Gennaro (i nomi sono di fantasia) dimesso pochi giorni fa dopo oltre un mese: «Vedevo entrare la mia dottoressa in punta di piedi, era a disagio. Non poteva visitarmi come voleva». Difficile raccontare le storie diverse ma unite dalla sottile linea rossa del Coronavirus. L'angoscia di Mario all'arrivo: 47 anni, subito isolato in una stanza vuota dopo essere partito da casa dentro una barella. Il suo mondo spinto oltre il diaframma di una porta che ha solo un finestrino. Il disorientamento di Luigi, 60 anni, che ha solo il tempo di telefonare alla sorella pregandola di avvertire i figli prima di essere intubato e sprofondare nell'oblio. La paura di Giovanni, 74 anni, preso dal terrore di non farcela. L'orgoglio di Franco: «Ho una discreta dimestichezza, sono riuscito a togliermi la flebo e mi sono medicato da solo. Ho cercato di far entrare il meno possibile gli operatori per evitare rischi eppure mi è capitato di essere felice nel vederli entrare con un pezzo di colomba (era Pasqua)».
 
 

Parallelamente scorrono le storie degli operatori, difficili, travolte dalla fatica e dallo stress, segregate nei reparti trasformati in una sola giornata, riempiti, invasi da pazienti e nuovi operatori. Per un medico o un infermiere malato la paura è ancora più grande, il peggioramento è dietro l'angolo e lo sanno. La prospettiva cambia. «Un collega - racconta il manager Maurizio di Mauro che è un infettivologo - mise a punto un esercizio di respirazione, noi lo trovammo utile come esercizio di rilassamento che trasferimmo a colleghi e pazienti». Dal tam-tam di amici, artisti, personalità della cultura ed esponenti dello spettacolo, al Cotugno sono arrivati brani, poesie, libri indirizzati a pazienti e operatori sostenuta dalla direzione generale che ne ha fatto una pagina sul web. Le stanze di degenza? Dopo un mese diventano un guscio. Tutti riconoscono che il compagno è stato importante per affrontare il percorso, creare relazioni. Una delle parole più ricorrenti dei racconti è: Dottore qui mi coccolano». Infine le dimissioni, momento delicato. I pazienti chiusi più di un mese hanno costruito relazioni intensissime con persone viste pochi secondi e sguardi fugaci hanno rappresentato una straordinaria opportunità di legame. Il ritorno a casa non è cosa facile. Nel condominio sono tutti carichi di sospetto. In ufficio per concordare un rientro al lavoro tutti invitano a rimandare: c'è lo smart working. Dopo la paura il sospetto.

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