Coronavirus a Napoli, Giardiello: «Dai brividi all'ossigeno io, chirurgo infetto salvato per caso dalla tac»

Coronavirus a Napoli, Giardiello: «Dai brividi all'ossigeno io, chirurgo infetto salvato per caso dalla tac»
di Maria Chiara Aulisio
Venerdì 13 Novembre 2020, 10:03
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Era il 22 ottobre quando il chirurgo napoletano Cristiano Giardiello, 60 anni, responsabile del centro per il trattamento dell'obesità del Pineta Grande Hospital - polo specializzato nei problemi legati all'eccesso di peso a Castel Volturno - ha avvertito i primi sintomi di quella che in altri tempi sarebbe stata derubricata a banale influenza: brividi di freddo, un po' di mal di testa e qualche linea di febbre, niente di più. Immediato invece il tampone, dopo poco il risultato che purtroppo conferma ciò che il chirurgo - protagonista di una fortunata trasmissione sull'obesità in onda su Real Time - aveva temuto fin dal primo momento: «Ho il Covid».

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Come si sente?
«Ormai bene anche se sono ancora ricoverato qui al Pineta Hospital: il tampone continua a essere positivo.

Domani mattina (oggi ndr) devo rifarlo, prego con forza che sia finalmente negativo. Ora voglio andar via».


Da quanti giorni è in clinica?
«Una decina. Non so più che cosa fare: parlo al telefono, leggo libri, giornali, guardo serie tv, credo di averle viste quasi tutte. Sono pieno di cortisone, non riesco a dormire più di un paio d'ore a notte. Che incubo. Ogni tanto aiuto pure i colleghi nell'assistenza ai pazienti affetti dal virus».


Quanti ce ne sono ricoverati?
«Attualmente diciotto, tutti abbastanza gravi. La clinica ha messo a disposizione la terapia subintensiva. Anche qui medici e infermieri stanno andando in affanno».


Poco personale?
«In una situazione drammatica come questa non si è mai abbastanza. Faccio un esempio: i turni di lavoro che normalmente durano sei ore, adesso solo tre. Bardati in quel modo, tra tuta, visiera, mascherina, guanti indossati uno sull'altro, non si possono superare le tre ore. Manca il fiato, i movimenti sono rallentati, c'è un tempo oltre il quale bisogna staccare per forza».


Così lei offre il suo contributo.
«Sapete quanto ci vuole solo per vestirsi e poi spogliarsi? Più di un'ora. E quando un turno monta e l'altro smonta può succedere che ci sia qualche vuoto in reparto. Visto che sono qui, ho ancora il Covid ma sto bene, faccio la mia parte e do una mano ai colleghi che si stanno letteralmente massacrando di lavoro».


Un passo indietro: racconti la sua storia dall'inizio.
«Me la sono vista brutta».


In che senso?
«Non riuscire a respirare è terribile, sembra di morire: non lo auguro a nessuno».


Andiamo con ordine: la febbre, il tampone, la positività. Poi che cosa è successo?
«Niente di particolare. Tutto sommato non stavo neanche malissimo. Decido - come avrebbe fatto chiunque con quei sintomi - di rimanere a casa e curarmi tranquillamente tra le pareti domestiche».


Terapia domiciliare.
«Certo. Chiuso in una camera - e senza incontrare mai nessuno - comincio le cure anti Covid aspettando con pazienza di avviarmi verso la guarigione, anzi ritenendomi pure fortunato per quella che mi sembrava una forma abbastanza lieve».


Invece?
«Andamento regolare. Febbre mai troppo alta e nessun disturbo respiratorio. Solo grazie alle insistenze dei colleghi del Pineta Hospital decido di andare a farmi una tac. Se fosse dipeso da me ne avrei fatto pure a meno, mi sembrava un eccesso di cautela».


Che cosa è venuto fuori da quell'esame?
«Una grave polmonite interstiziale bilaterale con compromissione polmonare del 50 per cento. Mi hanno ricoverato immediatamente e ora sono ancora qui».


Eppure si sentiva abbastanza bene.
«Fino a quel momento sì. Dopo qualche ora la situazione è precipitata, come se qualcuno con una mano mi coprisse naso e bocca impedendomi di respirare. Una sensazione terribile».


Per fortuna era ricoverato.
«Meno male perché quasi subito sono andato in insufficienza respiratoria: l'ossigenazione è crollata da 96/97 a 86/85 e ho avuto bisogno di un supporto ventilatorio con ossigeno forzato. In parole più semplici: ti pompano aria nei polmoni per farti respirare».


In che modo?
«A me hanno messo quella che in gergo si chiama la maschera Niv: non-invasive ventilation. Copre naso e bocca, ti sembra di impazzire ma almeno respiri».


Quando ha cominciato a stare meglio?
«Dopo circa una settimana. Poi il miglioramento è stato progressivo. Ma ciò che è sorprendente - e non sono certo il primo a dirlo - è la velocità con cui questo virus ti aggredisce facendoti passare da qualche linea di febbre all'ossigeno. Nel mio caso il peggioramento è arrivato pure dopo cinque o sei giorni di terapia quando ero quasi convinto di esserne fuori».


Invece era solo all'inizio.
«Incredibile. E vi assicuro che quella tac non l'avrei fatta se famiglia e colleghi non avessero insistito. Non finirò mai di ringraziarli».

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