Covid a Napoli, l'avvocato paziente uno torna a Milano: «Sono fuori dal tunnel, ma quanto dolore»

Covid a Napoli, l'avvocato paziente uno torna a Milano: «Sono fuori dal tunnel, ma quanto dolore»
di Leandro Del Gaudio
Giovedì 4 Marzo 2021, 11:15 - Ultimo agg. 18:52
4 Minuti di Lettura

Di nuovo a Milano, dove incrociò il virus, per poi ritornare a Napoli come paziente uno, cavia, primo ostaggio sintomatico matricolato dal nostro sistema sanitario. Da ieri è di nuovo lì, all'incrocio della vita: a Milano, una sorta di ritorno al futuro, a distanza di 12 mesi dal ricovero al Cotugno (era il due marzo del 2020). Oggi ha la mascherina, il gel in tasca, resta distanziato ed è deciso a vaccinarsi, appena arriverà il suo turno. Eccolo, F.G., avvocato cinquantenne un anno fa bollato come primo caso di contagiato da coronavirus a Napoli. Una notizia, quella del suo ricovero, che sollevò scalpore e paura a Napoli e, in particolare, nel mondo forense, dove il professionista lavora come socio di un accorsato studio di giuristi. Una traiettoria a lieto fine, la sua, anche se vissuta con sacrificio e sofferenza, vista la permanenza in ospedale e gli strascichi della malattia, anche e soprattutto grazie al lavoro fatto dal primo all'ultimo dei medici o operatori sanitari incrociati al Cotugno.

Video

Prima domanda, doverosa: 12 mesi dopo, come sta il paziente uno?
«Sono guarito, ma è stata dura, mi creda.

L'ultima tac polmonare è del gennaio del 2021, appena poche settimane fa, mi hanno detto che sono guarito. Tra qualche mese farò un nuovo check, grazie al rigore dei protocolli sanitari scattati a Napoli, alla straordinaria professionalità delle persone che ho incrociato al Cotugno». 

Ma lei non era quello che voleva sporgere denuncia contro Asl e ospedali, quando venne ricoverato?
«Riconosco che all'inizio era impossibile risultare preparati di fronte alla tragedia che si è abbattuta sul nostro sistema sanitario. In seguito, ho più volte verificato la competenza e la serietà che hanno accompagnato l'assistenza di tutti i pazienti».

Quanto tempo è durata la sua malattia?
«Un mese in ospedale, poi il ritorno a casa, con l'incubo di conseguenze ai polmoni. Oggi, ne sono uscito, ma vedo attorno a me le macerie di una crisi che non è finita».

Cosa ha trovato a Milano?
«Tanta crisi, ma anche tanta insofferenza alle regole e furberie varie, che si ripercutono su un'intera collettività rappresentata per la maggioranza da persone oneste. Un po' come a Napoli».

A cosa fa riferimento?
«Le scene dei navigli o della rissa di giovani in pieno centro le abbiamo viste tutti. Ma ho notato in questi giorni anche la vita apparentemente normale che si conduce nei ristoranti degli alberghi. Basta un escamotage, qui più che a Napoli, per organizzare cene e incontri serali nelle hall e nei ristoranti degli alberghi. L'ho visto e me ne dispiaccio. Comprendo l'esigenza di sopravvivere, ma qui è in ballo la tenuta del sistema e non è giusto che i sacrifici li facciano solo alcune persone».

A distanza di un anno, come crede di essere rimasto contagiato?
«Non ho dubbi: qui, nella metropolitana di Milano. Era sempre affollata, si viaggiava ammassati e senza mascherina. L'ho ripresa questa mattina ed è tutto diverso: scuole chiuse e smart working hanno abbattuto il problema, spesso si viaggia in carrozze semivuote, sembra di essere ritornati a un secolo fa».

Dopo il contagio di un anno fa, lo farà il vaccino?
«Certo che sì. Forse una sola dose, dipende dalla carica di anticorpi che ho mantenuto fino a questo momento. Anzi. Credo che sia necessario anche alla luce delle varianti che si stanno diffondendo nel nostro paese. Ne sappiamo ancora poco, bisogna difendersi e, in ultima battuta, la nostra difesa migliore sta nell'aderire alla vaccinazione di massa messa in campo dalle democrazie europee. Non siamo una dittatura militare, dove per certi versi è più facile dare corso a un piano di somministrazione dei medicine a scatola chiusa, ma il percorso da fare è ancora in salita, conviene che ci sia una convinta adesione da parte di tutti».

A cosa fa riferimento? Qual è il neo del sistema di somministrazione adottato finora?
«Non sono un tecnico, faccio l'avvocato, mi limito a dire quello che sanno tutti: la più grande ferita per il paese in questo momento è avere le scuole chiuse. I nostri figli a casa pesano più dei ristoranti sbarrati (che pure sono una storia seria), sono una ferita aperta su cui bisogna intervenire subito. Riaprire le scuole è l'unico modo per ritornare alla normalità, per rilanciare un progetto paese che - da Napoli a Milano -, a distanza di un anno resta ancora in gravi difficoltà, tra crisi economica, malati in corsia e una buona dose di indifferenza da parte di chi non ha ancora capito la dimensione della pandemia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA