Il 2020-2022 sarà ricordato probabilmente come triennio nero del Terzo Millennio. La pandemia non è ancora chiusa, e alla crisi economica da Covid non ancora smaltita si aggiunge quella scatenata della guerra. I tempi sono però maturi per valutare i numeri dell’indotto andato finora in fumo, dei posti di lavoro scomparsi, delle imprese che non sono riuscite a salvarsi. Il conto, per bar e ristoranti, è salatissimo. Il report annuale sulla ristorazione di Fipe (la Federazione Italiana Pubblici Esercizi) - che ha raccolto i numeri sulla base di fonti Istat, Infocamere e Inps - parla di 1,6 miliardi persi per i pubblici esercizi partenopei dal pre-Covid a oggi. E di 711 attività che hanno abbassato la saracinesca a Napoli nel solo 2021. Il 2022 era vissuto dagli imprenditori come l’anno della ripresa, dell’uscita definitiva dalla pandemia e dalle sue restrizioni, che - nei lunghi mesi di vittime e terapie intensive al collasso - avevano colpito a più riprese bar e ristoranti prima chiudendo le attività. Poi consentendo le riaperture solo a chi era dotato di spazi esterni. La guerra, però, che ha fatto schizzare i costi energetici e quelli di alcune materie prime fondamentali per la cucina partenopea come la farina di grano tenero (usata per pane e pizza) ha allungato il tunnel della crisi.
Nel biennio 2020-2021 sono ben 45mila le cessazioni di pubblici esercizi a livello nazionale, con un saldo negativo di 14mila attività. Per il 32% delle imprese italiane, il fatturato è calato di oltre il 20% nello stesso lasso di tempo. C’è stata, comunque, una ripresa del fatturato nel 2021, ma a Napoli è stata inferiore a quella registrata nel resto dello Stivale (+21,9% contro +20%). Tradotto in termini economici, la contrazione dei consumi del 2020 di 34,6 miliardi è stata recuperata solo per 13,3 miliardi nel ‘21 su scala nazionale. A Napoli, le perdite del 2020 di 1,9 miliardi sono state invertite di 300 milioni l’anno scorso. A testimoniare la ripresa solo parziale del 2021, ci sono i saldi negativi nel tasso di natalità delle imprese: in città hanno chiuso ben 711 pubblici esercizi, contro 494 nuove attività.
Nel presente e in prospettiva, a causa dei recenti aumenti dei costi delle materie prime, sono in particolare i locali di fascia medio-alta a vivere le maggiori difficoltà. A chiarire nel dettaglio come mai è Massimo Di Porzio, titolare dello storico Umberto a Chiaia e presidente di Fipe Campania: «La proiezione del 2022 era positiva, prima che scoppiasse la guerra - dice - Per fine anno era previsto un ritorno ai livelli di fatturato precedenti alla pandemia. A questo punto, credo che l’obiettivo sarà mancato. La ripresa a Napoli è più lenta che nel resto d’Italia, come dimostrano il saldo negativo di livelli occupazionali e della natalità delle imprese. Ci aspettiamo il -10% di incassi rispetto al 2019. Molto dipenderà dallo scenario del conflitto: con la guerra le bollette sono aumentate di un 30% medio, ma in certi casi sono raddoppiate. Negli ultimi mesi si è invertita poi una tendenza: i fornelli a gas andavano per la maggiore, prima della guerre, ma tanti nelle nuove cucine stanno tornando a montare i fornelli elettrici per ovviare alla crisi del gas. Altro dato fondamentale: Ucraina e Russia sono “il granaio d’Europa”. La farina di grano tenero dipende molto dai paesi a oggi in guerra, e le scorte che abbiamo sono quelle acquistate prima del conflitto. Sul grano duro, cioè per la pasta, l’Italia è il secondo produttore del mondo, quindi siamo più coperti. In questo scenario incerto, anche il saldo tra attività aperte e chiuse continuerà a essere negativo. I locali di fascia medio-alta sono quelli in maggiore difficoltà, anche per la questione del mantenimento dei prezzi. Tra questi ci sono poi le cucine degli stabilimenti balneari in attesa dalla ridiscussione delle concessioni».