Vaccini made in Italy, costi alti e tempi lunghi. Novartis: Torre Annunziata è una possibilità

Vaccini made in Italy, costi alti e tempi lunghi. Novartis: Torre Annunziata è una possibilità
di Nando Santonastaso
Giovedì 25 Febbraio 2021, 23:00 - Ultimo agg. 26 Febbraio, 12:37
6 Minuti di Lettura

Infialamento sì, produzione no, almeno per ora. Ma che l’Italia possa partecipare direttamente anche alla produzione del vaccino anti-Covid non sembra più così impossibile. Un’apertura in tal senso, sia pure molto cauta, arriva da Pasquale Frega, salernitano, amministratore delegato di Novartis Italia, uno dei colossi dell’industria farmaceutica. Secondo il manager, lo stabilimento di Torre Annunziata del gruppo, 450 dipendenti e primati ribaditi negli anni sul piano della sicurezza del lavoro potrebbe un domani essere interessato da questa ipotesi. Perché, è bene chiarirlo per evitare equivoci, di un’ipotesi per il momento si tratta visto che Novartis dopo l’accordo con Pfizer-Biontech, ha confermato che sarà il sito svizzero di Stein ad essere coinvolto nell’operazione (l’impianto riceverà il principio attivo mRna grezzo e procederà all’infialamento prima di restituire il vaccino completo a Biontech per la distribuzione). Frega ha aggiunto che Torre Annunziata “potrebbe dare una mano”, offrendo di fatto una sponda al progetto del governo Draghi di coinvolgere le maggiori aziende del settore per accelerare il più possibile la vaccinazione degli italiani. Per la multinazionale, però, occorrerebbe che questa diventasse una scelta “strategica” del Paese com’è già avvenuto in altri Stati. Ovvero, che non poggiasse interamente sulle spalle (finanziarie, soprattutto) delle industrie ma facesse parte di un piano più ampio di sostegno pubblico alla ricerca e alla produzione del vaccino, coinvolgendo anche gli enti territoriali, a partire dalle Regioni. 

LEGGI ANCHE ​Vaccini, Draghi alla Ue: «Siamo indietro» 

Non è una strada proprio in discesa anche perché nel caso specifico di Novartis e del sito di Torre Annunziata i problemi da affrontare non sarebbero semplici. Tra i più rilevanti, il futuro della produzione del farmaco salvavita prodotto in Campania e oggi diffuso in 100 Paesi di tutto il mondo, Stati Uniti esclusi, il fiore all’occhiello ormai della multinazionale in Italia. Riconvertirlo anche parzialmente al vaccino anti-Covid non sarebbe insomma una decisione semplice, per non parlare degli altri elementi di dubbio, comuni a tutte le aziende farmaceutiche che operano in Italia. Dai costi elevati ai tempi di dotazione dei macchinari necessari, bioreattore in testa, fino alla formazione di specifiche competenze.

Occorrerebbero sicuramente dai 4 ai 6 mesi, come più volte ha spiegato il presidente di Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi, in questi giorni. E c’è oggi chi osserva che quel tempo, forse, andava utilizzato ben prima che la seconda ondata attaccasse anche l’Italia. 

Eppure l’ipotesi c’è e il tavolo di ieri convocato dal ministro per lo Sviluppo economico Giorgetti indica che il governo ci vuole lavorare sul serio. Anche perché, se è vero che si fa presto a dire che i vaccini si possono produrre, è altrettanto vero che in Italia una pista da battere c’è, sia pure con assoluta, indispensabile prudenza. E con due indirizzi, la provincia di Siena e Anagni, nel Frusinate. In un panorama privo di impianti attrezzati, spicca infatti quello di GSK a Rosia, in Toscana, dove vengono al momento prodotti con i bioreattori i vaccini contro la meningite (circa 3 milioni gli ammalati ogni anno). Come per la Novartis di Torre Annunziata, anche qui bisognerebbe capire dove e come trasferire questa produzione prima dell’eventuale riconversione dell’impianto. Di sicuro, da qui proverrà l’adiuvante per il vaccino anti-Covid targato Sanofi e GSK che dovrebbe essere pronto entro la fine dell’anno e riguardare anche lo stabilimento della Catalent di Anagni. L’impianto, uno dei tre indicati dal gruppo farmaceutico francese, è già adesso impegnato nel solo infialamento del vaccino di AstraZeneca e, secondo alcune ipotesi, potrebbe fare lo stesso anche per quello di Johnson & Johnson quando verrà dato l’ok alla produzione.

LEGGI ANCHE Napoli: poche fiale di Pfizer, ​stop ai vaccini per gli over 80

Ma, appunto, siamo ancora lontani dalla produzione vera e propria. A Latina, ad esempio, Haupt Pharma (700 addetti compreso l’indotto) della multinazionale tedesca Aenova, che produce farmaci per conto terzi, punta anch’essa ad infialare sia il vaccino di AstraZeneca sia quelli di Pfizer e Moderna con un piano di riconversione dello stabilimento pari a circa 15 milioni di investimento. Ma sempre nel Lazio, l’americana Thermo Fisher Scientific di Ferentino sarebbe in grado di produrre sia vaccini adenovirali sia a mRna messaggero e ha avviato da dicembre assunzioni per altri 200 dipendenti. Il presupposto, come ripetono gli esperti, è che ci sia una dotazione di bioreattori standard oltre che l’approvazione prima dell’Ema e poi dell’Aifa. Si può fare, insomma, ma non sarà un percorso breve o poco costoso. Né si profilano spiragli sulla disponibilità delle licenze per replicare i vaccini già in produzione. Dice Piero Di Lorenzo, presidente dell’Irbm di Pomezia (Roma), la società che insieme all’università inglese di Oxford ha messo a punto il vaccino anti-Covid e che oggi collabora con l’anglo-svedese AstraZeneca che lo produce: «Non so se ci sono aziende che hanno tutto quello che serve per la produzione di vaccini anti-Covid. Posso dire che AstraZeneca non ha solo detto che il vaccino è un bene comune, lo ha dimostrato mettendolo in vendita al prezzo del costo industriale. Quando si è parlato del fatto che le multinazionali devono dare ad altre società la licenza per produrre, l‘azienda ha detto: “Si faccia avanti chi ha la possibilità di produrre su grossi quantitativi”. Che io sappia, nessuno dall’Italia si era fatto avanti».

Video

Tempi non brevi ma anche, come detto, costi altissimi. Un anno fa, la Polonia che stava già lavorando allo sviluppo di un vaccino, aveva reso noto che l’approvazione dello stesso (tra ricerca, iter di riconoscimento e distribuzione) poteva costare circa un miliardo di dollari, e che a questa cifra andavano aggiunti i conti relativi ai costi di ricerca e di sviluppo. Le stime variavano da un minimo di 200 milioni di dollari (circa 182 milioni di euro) fino a 1,5 miliardi di dollari (più di 1,3 miliardi di euro). 
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA