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Demenza presenile, il cervello «spento» di Maria e la forza di aiutare gli altri

di Francesca Mari
Articolo riservato agli abbonati
Mercoledì 12 Maggio 2021, 11:00 - Ultimo agg. : 13 Maggio, 09:35
5 Minuti di Lettura

«Quando a 44 anni scopri di avere una malattia del genere l'impatto è devastante. Ma le strade sono due: o ti lasci morire, perché l'isolamento è più invalidante della patologie stesse, o scegli di vivere e ti reinventi. Io ho scelto la seconda strada e per me da allora è cominciata una nuova vita. Ci vuole tantissima forza, ma si può fare». Maria D'Amore ha 48 anni, è di Brusciano e da quattro anni ha scoperto di essere affetta da una rarissima forma di demenza presenile. A metà strada tra l'Alzheimer e il Parkinson, la sua patologia è definita «deterioramento cognitivo da atrofia corticale posteriore» su base degenerativa. In sostanza il suo cervello ha cominciato a spegnersi, partendo dal deterioramento delle funzioni cognitive nelle aree posteriori, e sta morendo a poco a poco. Maria ha perso i ricordi, non riesce a fare le cose più semplici come leggere un sms sul cellulare o cucinare, ha deficit nella percezione dello spazio e del tempo, nel linguaggio e nell'elaborazione dei ragionamenti e ha quasi totalmente perso la vista. Il suo caso, unico in Italia tra quelli emersi, è all'attenzione dell'Istituto Neurologico «Carlo Besta» di Milano che ha richiesto l'autorizzazione per inviare le sue cartelle cliniche negli Stati Uniti. La sua patologia è di natura organica ma non se ne riesce ad individuare la causa. Suo padre, Salvatore, era affetto da Alzheimer e Maria se n'è occupata fino alla sua morte sopraggiunta a 58 anni, prima che lei si ammalasse. Ma non è chiaro se ci sia un collegamento. 

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Prima di ammalarsi Maria lavorava come cuoca nella mensa di una nota azienda della provincia, ed è proprio sul posto di lavoro che è cominciato tutto. «Era il 2016 ed io stavo uscendo da lavoro - racconta - quando improvvisamente ho perso l'orientamento, non sapevo più dove fossi. Inizialmente ho pensato si trattasse di stress, ma poi si sono presentati altri sintomi e ho subito ripensato a mio padre: sapevo bene cosa fosse una malattia neurodegenerativa, a poco a poco perdi qualcosa fino a perdere tutto. Ed io cominciavo a perdere la memoria - prosegue lentamente, facendo attenzione alla costruzione sintattica del discorso - a perdere la percezione delle parti del mio corpo, a non avere le parole per dire le cose. Cioè le avevo in mente ma non riuscivo a tirarle fuori». Per i primi tempi Maria ha taciuto le sue preoccupazioni ai figli Teresa, di 28 anni, e Massimo, di 21 e al compagno Stefano Russo, poi i deficit sono diventati così evidenti da non poter essere più nascosti. Teresa ora le fa da mamma: pettina e trucca Maria; Massimo non ha ancora metabolizzato, ma suona e canta per sua madre. «Mi chiamò in disparte - ricorda Stefano stringendo la mano di lei - dicendomi che sentiva di essersi ammalata e che sarebbe stato meglio se ci fossimo lasciati, non voleva essere di peso. Io le dissi che non sarebbe andata da nessuna parte: per me il senso dell'amore è in salute e in malattia. Così abbiamo cominciato le trafile negli ospedali di tutta Italia, fino al colpo della diagnosi. Per i primi mesi, poiché lavoravamo tutti, abbiamo reclutato una badante che la seguisse, ma Maria si stava spegnendo a poco a poco: non parlava più, non interagiva, guardava nel vuoto. Così abbiamo cambiato tutto: io e i ragazzi facciamo la staffetta per starle sempre accanto». 

Video

Ma a ridare vita ai giorni di Maria, oltre all'amore della sua famiglia, è stato anche l'incontro con Michele Carpinelli Mazzi, neuropsicologo clinico che l'ha assistita con la stimolazione cognitiva associata alla farmacoterapia. «Nel caso del deterioramento cognitivo cronico progressivo - spiega il dottor Carpinelli - non si può ambire a recuperare il deficit, la parte del cervello che è morta non si recupera. Ma si ottimizzano le funzioni che restano al paziente e si imparano strategie compensative del deficit. I casi di demenza presenile sono rarissimi, il maggior fattore di rischio per queste malattie è l'età, ma anche fattori costituzionali e ambientali. Maria ha fatto anche esami genetici, ma non si è capita la causa. La velocità di progressione non si può prevedere, il paziente peggiora sempre di più fino al deterioramento e alla perdita costante delle capacità. Ciò che mi ha colpito di Maria è stata la sua forza: ha tirato fuori dal dramma un'opportunità». Nel febbraio 2020, infatti, Maria ha fondato l'associazione Sa.Ma.(dal nome del padre e dal suo nome) che accoglie a Brusciano giovani con malattie cognitive. «Ho voluto tirar fuori dall'isolamento dice Maria persone destinate a morire dentro. Noi disabili abbiamo voglia di vivere, adrenalina a mille, possiamo fare tanto ma, spesso, è la società che ci isola. Con i ragazzi facciamo attività creative, seminari, messa in prova dei giovani altrimenti detenuti, avviamento alle professioni, inclusione. I miei ragazzi sono tutti rinati. Andiamo al Comune o dai carabinieri o in altri enti, armati di pettorine e palettine, chiedendo di supportarci nelle nostre attività. A volte ci dicono Non ho tempo. Li guardiamo attoniti. Come si fa a dire questo a chi, come noi, il tempo non ce l'ha davvero?».

Eppure Maria ci insegna che si può fare.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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