Don Merola: «Serve coraggio per strappare Forcella ai clan»

Don Merola: «Serve coraggio per strappare Forcella ai clan»
di Luigi Roano
Sabato 15 Agosto 2020, 09:10
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«Un prete scomodo» si dice di lui, sicuramente irrequieto don Luigi Merola. Da oltre due lustri non è più parroco di Forcella, ma il suo cuore batte sempre per quel lembo di Napoli sinonimo di camorra, diventato eterno sacrario della morte nel 2004 - era il 27 marzo - della povera Annalisa Durante, 14 anni appena, trovatasi al centro di uno scontro a fuoco tra i Giuliano e i Mazzarella. «Da quattro anni - dice don Luigi - non sono più sotto scorta, ma resto l'unico testimone di giustizia contro chi ha ucciso Annalisa: Salvatore Giuliano. Da Forcella non sono scappato, mi hanno mandato via perché un magistrato intercettò una telefonata tra camorristi che avevano deciso di uccidermi».

Don Luigi Merola, Forcella resta il suo quartiere di adozione, secondo lei sta cambiando?
«Onestamente? Si è interrotto un percorso, ma non vedo grossi miglioramenti, la mentalità è sempre la stessa e ancora oggi tanta gente che aiuto con la mia associazione A voce d'è creature mi dice di non tornare: gli aiuti, i soldini vogliono venire a prenderseli, ma hanno paura di farsi vedere assieme a me».
E perché?
«Io la camorra l'ho combattuta e ho collaborato con la polizia e la giustizia, andavo a benedire palazzi e case e vedevo droga ovunque e ho denunciato. E ora questi miei ex parrocchiani non vogliono farsi vedere con me perché temono di passare pure loro per collaboratori di giustizia».
Sta dicendo che a Forcella - nonostante il lavoro dell'associazione che porta il nome di Annalisa - non è cambiato nulla?
«Quelle mura sono ancora intrise di mentalità camorristica e la responsabilità è di tutti. Lo Stato, gli enti locali, le forze dell'ordine: non c'è la reale volontà politica di fare piazza pulita a Forcella, un quartiere piccolo di appena diecimila anime. Forse la Politica lì non prende voti, fa solo passerelle, ma anche la Chiesa deve fare di più, serve più coraggio».
Cioè?
«Le faccio un esempio: in parrocchia quando c'ero io facemmo un piccolo teatro che chiamammo I Taranto in onore di Nino e Carlo Taranto che lì erano vissuti. Ci venne anche Fabrizio Frizzi a esibirsi. Ora quel teatro è chiuso, era un'oasi di cultura. Alla Sanità, dove la speranza cresce, il pool anticamorra è composto dai quattro parroci che stanno con don Antonio Loffredo...».
Contro le stese non servono solo i preti: non le sembra di essere un po' ingeneroso con la Chiesa?
«Io adoro e voglio molto bene a don Angelo, il parroco di Forcella. Ma a Forcella il parroco deve essere un pescatore, uscire dalla chiesa e pescare anime, perché se aspetta che queste vadano in chiesa sarà un'attesa eterna. Io stavo tra la gente in strada e nelle loro case, pagavo le bollette, raccoglievo i fondi. Così in tanti smisero di rivolgersi ai boss e venivano in chiesa. Lì la parrocchia deve fungere anche da ammortizzatore sociale».
Sta togliendo la speranza di una vita migliore a chi vive a Forcella?
«No, la speranza dev'esserci, io dico che ci vuole più coraggio da parte di tutti. A Forcella serve il lavoro, in tanti ancora vivono di contrabbando e droga. Solo così cambierà anche la mentalità camorristica».
 

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