Don Rapullino: questa città non risorgerà
Ma gli altri parroci non ci stanno

Don Rapullino: questa città non risorgerà Ma gli altri parroci non ci stanno
di Maria Chiara Aulisio
Lunedì 20 Novembre 2017, 09:02
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«Niente di nuovo sotto il sole: com'era vent'anni fa, così è oggi. Quello che facevano i padri adesso lo fanno i figli e poi toccherà ai nipoti loro, ai pronipoti e a tutti quelli che vengono appresso. Se ci vogliamo prendere in giro possiamo pure dire che sì, tutto cambierà, ma se vogliamo essere seri lo sappiamo molto bene che così non è». Don Franco Rapullino parroco della chiesa di San Giuseppe a Chiaia, per anni a Forcella, non si nasconde dietro quelle che definisce «ipocrisie e false speranze»: «Qui a Napoli pure l'aria è fetida. In atto c'è una guerra spietata che vede tutti perdenti: famiglia, scuola, chiesa, stato... nessuno escluso. Per me questa città è morta e non risorgerà mai più».
Parole dure, difficili da ascoltare, anche di più quando a pronunciarle è un sacerdote di frontiera, un prete che contro camorra, criminalità e violenza combatte da una vita e che ancora oggi è impegnato in un quotidiano lavoro sul territorio. Fu proprio lui, don Franco, a pronunciare dal pulpito della chiesa di Santa Caterina a Formiello, nel 1990, il famoso fuitevenne, un grido di dolore rivolto ai napoletani dopo l'uccisione per errore del piccolo Nunzio Pandolfi, di soli 2 anni, nel cuore del Rione Sanità. «Mi dispiace dirlo, ma qui il malessere regna sovrano: i giovani senza lavoro diventano facili prede del disagio, le istituzioni scolastiche sono rinunciatarie, la chiesa è attaccata da tutte le parti, le famiglie se ne fregano, anzi spesso sono i primi nemici dei figli. Per quanto mi riguarda vi posso assicurare che la situazione è ben più grave di quella che appare: baby gang e minorenni armati rappresentano solo la punta di un iceberg. Oggi come allora: dal giorno in cui dissi fuitevenne non è cambiato niente».
 

Non le manda a dire, Rapullino, nemmeno al vescovo e ai suoi colleghi sacerdoti con cui si è incontrato lo scorso martedì proprio per fare il punto della situazione. Una riunione alla quale ha preso parte anche don Carlo Ballicu, parroco della chiesa di Santa Maria della Consolazione e decano del quarto decanato: «Si continua a sparare nelle strade e stavolta ci sono anche i minori, le baby gang impazzano e la situazione sembra stia davvero superando i livelli di guardia. Credo sia arrivato il momento di interrogarci seriamente sull'emergenza che sta vivendo il mondo giovanile e cercare rapidamente delle risposte».
Don Carlo parla di «chiesa, società e istituzioni» nel tentativo di salvare una generazione altrimenti destinata allo sbando: «Dobbiamo ricercare alleanze educative - spiega il decano - e riscoprire la capacità di ascoltare per poi interrogarci sulle cause da cui dipende tutto questo». Inevitabili alcune domande: «Come mai ragazzini di quell'età passano la notte in strada? - si chiede il parroco di Santa Maria della Consolazione - Che cosa cercano? Perché sono lì? E dove sono le loro famiglie? Abbiamo il dovere di trovare delle risposte e possiamo farlo solo creando quell'alleanza educativa di cui parlavo: la responsabilità ci impone di mettere da parte divisioni e contrapposizioni, dobbiamo lavorare insieme e metterci in ascolto».
Don Carlo sottolinea anche la necessità di organizzare luoghi di aggregazione, anche nelle parrocchie, per dare la possibilità ai ragazzi di ritrovarsi e allontanarsi dalla strada grazie alla partecipazione a una serie di attività associative e ricreative: «Penso agli oratori - spiega don Carlo - in versione moderna, naturalmente: laboratori pensanti in grado di offrire qualcosa. Dalla musica allo sport dove accogliere i giovani e le loro famiglie. Il progetto è concreto, ci stiamo lavorando e siamo quasi pronti a partire».
La pensa così anche don Giuseppe Carmelo, parroco della chiesa di Santa Lucia a Mare, quella del Pallonetto per intenderci: «Due dei ragazzini coinvolti nella sparatoria dell'altra notte ai baretti appartengono certamente alla mia parrocchia - dice il sacerdote - non conosco i loro nomi ma li avrò visti chissà quante volte: le famiglie di questa zona le seguo una a una con la speranza che la vicinanza della chiesa possa farli sentire meno soli». Padre Giuseppe combatte, almeno ci prova: «ma non tengo gli strumenti, - dice - questo è il problema, e allora le battaglie è difficile vincerle». Quando parla di «strumenti» il prete fa riferimento soprattutto agli spazi, «indispensabili se davvero vogliamo allontanare i ragazzi dalla strada». Don Giuseppe fa un esempio per tutti: «Il campetto del Molosiglio: è abbandonato da anni, e sono anni che chiedo di darcelo per farci giocare i ragazzi. Niente da fare, la mia domanda è ferma lì, bloccata da burocrazia, passaggi istituzionali e non so che altro impedisca al Comune di concedere in uso a una parrocchia un campo distrutto e inutilizzato che per noi invece potrebbe essere prezioso».
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