Elio Palombi «Il diritto è pane quotidiano e insegnarlo è una sfida»

Elio Palombi «Il diritto è pane quotidiano e insegnarlo è una sfida»
di ​Maria Chiara Aulisio
Sabato 12 Dicembre 2015, 11:30
5 Minuti di Lettura
Suo padre, Arturo Palombi, lo avrebbe voluto professore di zoologia, preferibilmente alla facoltà di Agraria di Napoli, come lui, docente stimato, severo e rigoroso con una particolare caratteristica che lo aveva reso famoso in buona parte del mondo accademico partenopeo.

Quale? Quella di far durare ogni esame non meno di due ore, anche due ore e mezza, per la “gioia” degli studenti, manco a dirlo, e degli assistenti che sapevano quando si cominciava e mai quando si finiva. No, suo figlio Elio, quello che poi nella vita sarebbe diventato magistrato, pretore, sostituto procuratore, penalista, e anche professore, di quel ramo delle scienze biologiche che studia la vita del mondo animale, non gli poteva importare di meno. Voleva fare giurisprudenza, Elio Palombi, gli piaceva il diritto, la scienza del diritto, le leggi, i codici e gli atti giudiziari. L’unica cosa che, in futuro, seduto in cattedra, lo avrebbe accomunato a suo padre sarebbe stata la “puntigliosità” (si fa per dire) durante gli esami.

Due ore anche i suoi?
«No, ci mancherebbe. Però mi sono ispirato a quei principi, mio padre per me è stato un grande maestro».

In che senso?
«Per lui l’insegnamento era un sacerdozio. Mi ha trasmesso la stessa passione per la didattica, il rigore e una grande serietà nell’insegnamento e nel rapporto con i giovani: devo ammettere che mi sono trovato bene».

Veniamo ai fatti: quanto duravano i suoi esami?
«Non quanto quelli di mio padre. Però non è che li tenevo poco. Lo facevo per loro, per gli studenti».

Dica la verità.
«È la verità, meno lo interroghi, un ragazzo, e meno hai modo di capire se davvero è preparato o no. Avevo una buona tecnica che ha sempre funzionato».

Quale?
«Partivo da una domanda di carattere generale. Non so, “mi parli del dolo...”».

Più generica di così...
«Infatti. Se lo studente non era preparato lo capivo subito e diventava quasi inutile andare avanti».

“Torni la prossima volta”, insomma.
«No no, anzi. Qualche altra domanda la facevo ugualmente ma già sapevo che non saremmo andati troppo lontano. Se invece rispondevano in maniera soddisfacente sui temi di carattere generale, scendevo nel particolare e cominciava l’esame vero e proprio».

Livello di difficoltà?
«Il giusto. Raramente arrivavano studenti del tutto impreparati. Avevano imparato a conoscermi, sapevano perfettamente che senza una buona dose di studio non sarebbero andati oltre la prima domanda e non si presentavano proprio».

Meglio non provarci, quindi.
«Non ho mai raggiunto mio padre ma vi assicuro che li esaminavo bene i ragazzi riuscendo a far emergere ciò che sapevano davvero. Scienze politiche è una facoltà multidisciplinare, occorre una preparazione pratica, chi la frequenta probabilmente farà il diplomatico o dovrà prepararsi per sostenere un concorso pubblico. Avevo una grande responsabilità che non potevo disattendere».

Che cosa insegnava?
«Istituzioni di diritto e procedura penale, la stessa cattedra che a Roma era di Moro. Quando Vassalli lo volle a giurisprudenza rifiutò, scelse di restare a Scienze politiche, una facoltà che privilegiava».

Perché?
«Ti costringe a capire le questioni concrete del diritto penale, quelle applicate alla realtà, non basta il rapporto filosofico tra le varie dottrine, ci vuole dell’altro».

Quanti trenta e lode avrà messo?
«Mi torna in mente un episodio».

Quale?
«Avevo un allievo sul quale non avrei scommesso nulla».

Pregiudizi?
«No. È che veniva pure a seguire tutte le lezioni ma sembrava sempre distratto, mai che facesse una domanda, una curiosità, niente di niente. Arrivò il giorno dell’esame, pensai ”eccolo qui, vediamo che cosa ha imparato”».

Sorpresa?
«Cominciai con la solita domanda di carattere generale per valutare la preparazione complessiva».

Come rispose?
«Benissimo. Pensai “mah, sarà stato fortunato”. Andai avanti e cominciai a scendere nel dettaglio».

E lui?
«Rispondeva in maniera esemplare, un fuoriclasse. Non potevo crederci e insistevo con domande ogni volta più difficili. Macché, sapeva tutto. E meritò uno dei pochi trenta e lode che ho messo. Recentemente ho saputo che insegna all’Università di Torino con ottimi risultati».

Belle soddisfazioni.
«L’Università mi ha sempre gratificato, alla formazione ho dedicato quasi tutta la vita. Anche quando con alcuni magistrati fondammo una rivista, l’obiettivo era sempre lo stesso: divulgare e coinvolgere i giovani».

Una rivista?
«Fu una bella esperienza, era un giornale penale di economia, con me c’erano Giorgio Pica, attuale presidente di sezione alla Corte di Appello di Bari, Oberdan Forlenza, segretario generale del Consiglio di Stato, Carmineantonio Esposito... e tanti ragazzi».

Una vita in cattedra.
«E tra i banchi. Ho diretto anche la scuola di perfezionamento in diritto e procedura penale a giurisprudenza su richiesta del professore Santamaria, negli ultimi anni poi ho coordinato il corso sui reati alla pubblica amministrazione. Fino all’alta formazione».

Alta formazione?
«Grande esperienza anche questa. Da molti anni mi occupo dei corsi di aggiornamento professionale per funzionari di polizia di stato e polizia giudiziaria. Quest’anno, alla fine di gennaio, a tenere l’ultima lezione sarà Franco Roberti, il procuratore nazionale anti-mafia».

Dai ragazzi ai poliziotti.
«Studenti anche loro e con grande profitto. I corsi vengono seguiti con molto interesse, d’altronde in cattedra ci sono sempre magistrati di alto livello. La formazione si fa così, inutile perdere tempo: docenti di qualità che insegnano la pratica. Basta con quelle lezioni di carattere puramente teorico, non funzionano più».

Parla così perché ha un passato da magistrato?
«Pragmatismo innanzitutto. Sono stato prima sostituto procuratore della Repubblica a Novara, poi in alta Irpinia, infine pretore a Castel Baronia, provincia di Avellino. Guido Capozzi c’è stato 15 giorni, io ho battuto il primato: 15 anni. Formazione autentica».

Meglio di Novara?
«Esperienze diverse. A proposito di Novara, mi ricordo un episodio divertente: ero pubblico ministero, accanto a me c’erano tre giudici torinesi, il collegio giudicante, e un disgraziato napoletano accusato di porto abusivo d’armi».

Quindi?
«Inizia il processo, io chiesi la condanna e il suo difensore le attenuanti generiche. Mentre i giudici stavando andando in camera di consiglio, da napoletano perfetto l’imputato si alzò e disse: “presidè fermatevi, l’avvocato mio non ha capito niente, non mi ha difeso bene: è vero che sono accusato di porto abusivo di armi al di fuori della propria abitazione?” “Sì” rispose il presidente. E lui “Vedete che non ha capito, l’avvocato? Io l’abitazione non la tengo, vivo alla stazione, quindi il reato non c’è più”. Vi lascio immaginare la faccia dei torinesi, anche se pure loro furono costretti ad ammettere che si era trattato di un’intuizione straordinaria».

Magistrato, professore universitario e anche penalista. Quanti praticanti ha allevato nel suo studio?
«Tanti. Soprattutto negli anni di tangentopoli. Era un lavoro massacrante, difendevo politici e imprenditori, avevo anche tre cause al giorno. È chiaro che mai avrei potuto fare tutto da solo, avevo bisogno di molta collaborazione e la cercavo nei giovani: sono l’unico penalista a Napoli ad avere aperto uno studio associato. Ci siamo tolti belle soddisfazioni. Anche se purtroppo non sono mancate le delusioni».

In che senso?
«Non è mica sempre oro tutto quel che luce. I ragazzi possono darti grandi gioie e talvolta altrettanta amarezza. Ma va bene così, fa parte del gioco»