Ernesto Iaccarino: «Chef grazie a papà don Alfonso, pochi amici e tanta severità»

Ernesto Iaccarino: «Chef grazie a papà don Alfonso, pochi amici e tanta severità»
di Maria Chiara Aulisio
Venerdì 9 Aprile 2021, 09:50 - Ultimo agg. 10 Aprile, 08:13
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Ernesto Iaccarino è più di uno chef (ovviamente stellato). La sua è una di quelle storie che tutti i ragazzi dovrebbero conoscere per capire qual è la strada giusta. E come impegno, spirito di sacrificio, orgoglio e ambizione siano - è il caso di dirlo - gli ingredienti indispensabili per percorrerla nel modo giusto.
Cominciamo dall'inizio. Da suo padre, anima e motore di Don Alfonso 1890 a Sant'Agata sui Due Golfi - tre stelle Michelin dal 1997 al 2001 - un pezzo di storia dell'eccellenza italiana.

Genitore impegnativo?
«Assai impegnativo. Uomo straordinario ma severo, rigoroso e intransigente».


Da che punto di vista?
«Tutti. Non me ne faceva passare una. Ne ho avute di strigliate. Le ragioni erano quasi sempre collegate all'azienda. Una priorità, mi diceva, il resto viene dopo».


Dedizione assoluta.
«Perfino lo studio era subordinato all'impegno che dovevo dedicare al ristorante».


A che età ha cominciato a lavorare?
«La storia è lunga».


Racconti.
«Avevo dieci anni, papà già pretendeva che il sabato e la domenica lo passassi con lui. Dunque: niente amici, feste o altre attività alle quali mi sarei dedicato volentieri. La parola d'ordine era una sola: il ristorante».


Lei obbediva?
«Alternative non ne avevo. In ogni caso ho sempre amato il cibo, la cucina mi affascinava, tra i fornelli ci stavo volentieri. È chiaro che più crescevo e più avevo voglia di incontrare gli amici, frequentare le ragazze, divertirmi».


Invece niente?
«Poco svago e sempre vincendo la sua ostilità».


Qualche serata in discoteca l'ha mai trascorsa?
«Si contano. E però devo ammettere che, tra una festa danzante e una cena, ho sempre preferito la seconda».


Anche da ragazzino?
«Avevo sedici anni, lo ricordo come se fosse ieri: gli amici volevano andare a ballare, io invece a mangiare al ristorante. Spesso finiva che mi sedevo a tavola pure da solo».


L'anima dello chef cominciava a venire fuori.
«Fin da bambino ho prestato molta attenzione alla qualità del cibo e alla sua provenienza. In famiglia si mangiava sempre al top».


Grande scuola.
«Quella di mio padre sicuro. Devo ammettere che sto cercando di replicare il metodo Alfonso Iaccarino con mio figlio ma i risultati al momento sono scarsi».


Un metodo piuttosto semplice: studio, lavoro e basta.
«Più lavoro che studio. Non è che mio padre non voleva che stessi sui libri, ci mancherebbe. Ma l'azienda doveva avere la priorità».


Prima la cucina, dunque.
«Senza dubbio. Prova ne è che manco sapeva dove fosse l'università che frequentavo. Mai detto bravo per un 30. Non perché non ne fosse orgoglioso, anzi, ma aveva sempre quel risentimento dettato dal fatto che - per quanto meritorio - mi stessi dedicando ad altro».


In che cosa è laureato?
«Economia, 109 alla Federico II».


Complimenti!
«Anni duri.

Di impegno e conflittualità».


Sempre con suo padre?
«Litigi furibondi. In un'occasione passammo sei mesi senza parlarci».


Per quale ragione?
«Il lunedì avrei dovuto sostenere l'esame di matematica generale con il professore Basile, rinomato per essere molto esigente. Avevo studiato tre mesi come un matto. Il sabato mattina papà mi comunica che la sera sarei andato a Punta Licosa: doveva cucinare per un banchetto e voleva che lo accompagnassi».


Ci andò?
«Mi rifiutai. Sapevo che saremmo tornati all'alba della domenica e con l'esame il giorno dopo non mi sembrava il caso. Risultato? Sei mesi di mutismo».


Poi però sarà stato contento del 109?
«Certo. Un po' meno quando decisi di partire per Milano».


A fare che cosa?
«Dovevo mettere in pratica ciò che avevo studiato. Ero pieno di nozioni ma in realtà non sapevo fare nulla. In quella situazione anche in azienda non sarei stato utile quanto avrei voluto».


Quindi direzione Milano?
«Spiegai ai miei genitori che avrebbero dovuto aspettare ancora un po' e feci le valigie. Mi bastò un colloquio per essere assunto alla Pricewaterhouse, multinazionale di servizi di consulenza: 1500 candidati per 70 posti».


E lei ce la fece.
«Non solo. Dopo un paio d'anni guadagnai anche una promozione. Il mio capo era indiano, appassionato di cucina: ci incontravamo alle 7 di mattina nel suo ufficio, parlavamo di lavoro e di cibo».


Quanti anni aveva?
«Ventinove. L'età giusta per tornare a casa e mettere in campo un grande progetto di ristrutturazione: sei milioni di investimento in una azienda che ne fatturava meno di due».


Se non fosse partito forse quel progetto lo avrebbe realizzato prima.
«Se non avessi studiato economia, e lavorato tre anni in PwC, probabilmente non saremmo cresciuti così: oggi gestiamo ristoranti in tutto il mondo e siamo in vetta alle più prestigiose classifiche internazionali. Senza contare, parlando ancora di economia, che in ogni piatto c'è sempre una parte numerica e ingegneristica».


In un piatto?
«Certo. Non basta l'idea, poi bisogna fare i calcoli. In cucina pesiamo al centesimo di grammo».


Dica la verità: quanti segreti le ha svelato don Alfonso?
«Mio padre fa parte di quella scuola di pensiero secondo cui il mestiere non te lo devono insegnare: va rubato».


Quindi mai nessuna dritta?
«Quando qualcosa non va me lo dice sempre. Erné, sto piatto è sbagliato. In che cosa papà? Erné, ti ho detto che sto piatto è sbagliato. Sì, ma dove?. Erné, vir' tu. Gira i tacchi e se ne va».

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