L’ultima fuga di Pippotto: evade dal carcere di Perugia ma è ripreso dopo poche ore

L’ultima fuga di Pippotto: evade dal carcere di Perugia ma è ripreso dopo poche ore
di Daniela De Crescenzo
Sabato 8 Maggio 2021, 00:28 - Ultimo agg. 18:38
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È fuggito dal carcere Capanne di Perugia Domenico D’Andrea, condannato in via definitiva per l’assassinio di Salvatore Buglione, il dipendente comunale ucciso il 4 settembre del 2006 mentre si trovava nell’edicola gestita dalla moglie in via Pietro Castellino a Napoli. Ma è stato ripreso dopo poche ore. Era in un boschetto vicino alla stazione di Fontivegge, dove era arrivato a piedi, a dodici chilometri dal carcere. A rintracciarlo è stata la polizia. Quella di ieri è l’ennesima, rocambolesca avventura di una vita sbagliata. 

D’Andrea, che tutti conoscono nel suo quartiere, Piscinola, come Pippotto, era già scappato dal carcere di Airola dove era finito da minorenne e nessuno sa con precisione di quanti furti e di quante rapine sia stato autore. Primo di tre figli, con un padre che entrava e usciva da galera, aveva cominciato fin da bambino a delinquere rubando cardellini, poi aveva continuato a commettere reati, anche perché nel frattempo era finito nel giro della droga. Non era riuscito a fermarlo nemmeno il vescovo di Acerra, don Antonio Riboldi, che aveva tentato in ogni modo di aiutarlo a salvarsi la vita. Inutilmente. Aveva tredici anni quando fu accusato di essere a capo di una banda che rapinava motorini nei quartieri del Vomero e dell’Arenella. Fu anche ferito a una gamba da un carabiniere durante un tentativo di rapina. Da allora è stato quasi sempre in carcere, prima quello per minorenni, poi quello destinato agli adulti.

Nel settembre del 2006 era da poco tornato a casa dopo un lungo periodo di detenzione, quando fu coinvolto in una drammatica rapina: insieme a tre complici, i fratelli Pasquale e Antonio Palma e un minorenne, aveva assaltato un’edicola. Salvatore Buglione, che si trovava all’interno del chiosco, aveva tentato di difendersi ed era stato pugnalato. Nemmeno quindici giorni dopo Pippotto e i complici erano stati arrestati dalla Squadra mobile e in un primo momento il giovane aveva ammesso di aver partecipato al raid, senza però confessare di essere l’autore del colpo mortale. Aveva reso le prime dichiarazioni in Questura, ma poi era stato ascoltato dai magistrati incaricati di seguire il caso, Paolo Mancuso, Sandro Pennasilico, e Gabriella Gallucci. Qualche settimana dopo l’ennesimo colpo di scena: Pippotto aveva ritrattato la confessione e all’allora deputato Raffaele Tecce, che era andato a incontrarlo nel carcere di Bellizzi Irpino, aveva raccontato: «Sono veramente addolorato per quello che è successo a quell’uomo e sono dispiaciuto per la sua famiglia.

Ma io con quella storia non c’entro niente. Io sono un rapinatore. Un rapinatore, non un assassino. Guardate le sentenze dei miei processi: non sono mai stato accusato di portare armi. Anche quando ho minacciato qualcuno con la pistola mi sono servito di un giocattolo. E un coltello come quello che ha ucciso Buglione non l’ho mai avuto. Rapine sì, ne ho fatte tante, e sono anche fuggito da un carcere, quello di Airola. E ho utilizzato cocaina, eroina e anche il crak che ti distrugge il cervello. Ho fatto tante cose, alcune anche terribili, ma non ho mai ucciso nessuno. La mia vita, da quando avevo quattordici anni l’ho passata in prigione. Ho una figlia di quattro anni, le voglio bene, ma l’ho incontrata pochissime volte. Non so che cosa voglia dire veramente vivere». 

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Una ricostruzione che non aveva retto al dibattimento: Pippotto doveva scontare l’ergastolo, ma era stato ammesso al lavoro esterno con le modalità previste dal cosiddetto articolo 21. Ogni mattina si recava in una palazzina attigua al carcere e comunque all’interno dell’area del penitenziario, ieri doveva tornare a dormire in cella, invece ha scavalcato una recinzione e si è poi allontanato. I familiari dell’evaso durante le ore di ricerca hanno spiegato di essere totalmente all’oscuro dei movimenti di Pippotto. Sulla vicenda sono intervenuti Carmen Del Core e don Tonino Palmese, che presiedono rispettivamente il Coordinamento campano dei familiari delle vittime innocenti della criminalità e la Fondazione Polis della Regione Campania dicendo: «Esprimiamo la nostra massima solidarietà e vicinanza ai familiari di Salvatore Buglione. Condividiamo il loro dolore e il loro scoramento e lo sdegno per una situazione così assurda. Nello stesso tempo, siamo certi che le forze dell’ordine faranno il massimo per assicurare nuovamente alla giustizia il killer di Salvatore». 

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