Imputabili a 12 anni, mille ragazzini
in più nella rete della giustizia

Imputabili a 12 anni, mille ragazzini in più nella rete della giustizia
di Viviana Lanza
Domenica 17 Marzo 2019, 11:20
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Ci sono realtà che vanno osservate anche a partire dai numeri. È il caso del fenomeno della devianza minorile. In questi giorni è tornato attuale il dibattito sull'abbassamento dell'età imputabile. Il ministro Matteo Salvini ha annunciato, proprio in occasione della sua presenza a Napoli per il vertice in Prefettura sulla sicurezza, un disegno di legge al vaglio del governo che valuta una stretta alle misure di repressione, considerando di abbassare la soglia della impunibilità a dodici anni di età.

LE STATISTICHE
I numeri, dicevamo. A Napoli se la proposta diventasse legge finirebbero nelle maglie della giustizia mille minorenni, bambini o poco più, con età tra i dodici e i tredici anni. Sono quelli rimasti coinvolti in indagini per fatti tra i più vari ma nei cui confronti non sono stati adottati provvedimenti giudiziari perché la norma attualmente prevede che l'età imputabile sia dai quattordici anni in su. Sono soprattutto bambini che vivono in contesti disagiati, provengono dai quartieri di periferia, in assenza di sani punti di riferimento si accodano facilmente ai violenti, cercano il branco, la babygang, per sentirsi più grandi e più forti e provare a colmare carenza di affetto, vuoti di cultura, mancanza di opportunità. A Napoli, come in altre città, ormai è frequente che i minorenni, anche quelli che non sono ancora entrati nella piena adolescenza, delinquono: devastano scuole, rubano o accoltellano in strada, fanno branco o finiscono al servizio della camorra come sentinelle o confezionatori di droga.

 

I dati sulla devianza minorile parlano di 20mila minorenni accusati di reati in tutta Italia, 2mila solo a Napoli. Di questi oltre un centinaio sono sottoposti a misura cautelare, circa una cinquantina sono detenuti nel carcere minorile di Nisida e poco più di settanta in quello di Airola, e per il resto sono in comunità di recupero o, grazie all'istituto della messa alla prova, liberi di frequentare la loro scuola, la propria casa, a volte il proprio quartiere e quindi la strada. Perché queste misure alternative non sempre risultano efficaci per rieducare i minori che hanno commesso reati. Le stime calcolano che circa l'85% torna a delinquere. Numeri che invitano a una riflessione.

IL PARERE
Catello Maresca è un magistrato in forza alla Procura di Napoli. Si è a lungo occupato di reati violenti gravi e con le sue inchieste ha contribuito a indebolire molti clan della camorra, in particolare quello dei Casalesi. Due anni fa, con l'imprenditore Rosario Bianco, ha fondato l'associazione Arti e mestieri per fornire alle nuove generazioni, e in particolare ai ragazzi provenienti da contesti devianti o disagiati, la possibilità di imparare un mestiere e avere un'alternativa nella vita. Ha letto il disegno di legge sull'abbassamento dell'età imputabile e si dice «astrattamente favorevole, soprattutto al fatto che si torni a parlarne». La questione è sul tavolo da anni e si fonda su teorie e studi sull'età in cui si comincia ad avere una reale percezione di ciò che si compie. «Oggi già a dodici anni i ragazzi possono aver fatto esperienze che li rendono capaci di intendere e di scegliere di compiere una certa azione. Abbassare l'età imputabile, secondo quanto previsto dal disegno di legge, non significa che a dodici anni si va per forza in carcere, ma che il giudice ha la facoltà di valutare quale misura adottare per i reati commessi dai minori tra i dodici e i diciotto anni di età e non più tra i quattordici e i diciotto». Le parole chiave sono due: «Rigore, legato al concetto educativo che chi sbaglia paga (e possono capirlo anche i bambini), e recupero, nel senso di potenziare le misure per assicurare la funzione rieducativa della pena e rendere efficienti le comunità e i servizi sociali». Maresca evidenzia che la sola repressione non basta, che occorre investire in una rete sociale efficace. Dall'esperienza sul campo, dagli incontri con gli studenti di tutte le scuole e dai faccia a faccia con criminali di ogni specie si è convinto che «se tendi una mano la maggior parte dei ragazzi la afferrano, perché vogliono uscire dal degrado e dalla criminalità». «Servono esempi positivi e concreti - spiega - e nei casi più gravi, anche se è doloroso, serve allontanare i minori dalle proprie famiglie». LA TESTIMONIANZA
Maria Luisa Iavarone è la mamma di Arturo, il ragazzo che in via Foria a dicembre di un anno fa fu accoltellato alla gola da un gruppo di minorenni, tra i quali anche un bambino di poco più di dodici anni, parente di un personaggio ritenuto legato ad ambienti di camorra e che è stato riaffidato alla madre. Cosa ne sarà di questo bambino? Chi controllerà che non ricada in fatti di violenza o di illegalità? Sono domande che restano aperte di fronte a realtà come queste. Maria Luisa Iavarone ha trasformato la paura e il dolore per quello che è accaduto al figlio in impegno sociale, adesso anche con l'associazione Artur che presiede: «Adulti responsabili per un territorio unito contro il rischio». Per lei abbassare l'età imputabile non serve: «Non credo che i dodicenni di oggi siano più maturi e consapevoli di quelli di un tempo né che possa servire metterli nella rete della giustizia se tutto intorno, famiglia, società, scuola, istituzioni hanno trame troppo larghe. Meglio costruire attorno a questi ragazzi una rete fatta di relazioni efficaci, di sinergie positive tra istituzioni, badando alla qualità degli incastri e facendo in modo che ciascuno faccia la propria parte, costruendo una massa critica, un sistema». Ha due proposte: «Ancorare il reddito di cittadinanza al registro delle presenze a scuola dei figli, per contrastare la dispersione scolastica e responsabilizzare di più genitori e famiglie. E creare un elenco di famiglie in grado di rieducare i minori a rischio come alternativa a certe strutture di recupero che non funzionano e che oggi costano 3mila euro al mese a ragazzo».
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