Italia fuori dal Mondiale, si fa presto a dire solo sport

di Franco Cardini
Mercoledì 15 Novembre 2017, 09:34 - Ultimo agg. 16 Novembre, 08:52
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Un Paese a lutto. È questo che si direbbe avvenire attorno a noi – e forse, per molti, anche dentro di noi – dinanzi all’evento che si è abbattuto quasi come un fulmine sul nostro Paese (eppure, molti hanno sottolineato in queste ore febbrili che si è trattato di una «morte annunciata») e che è stato vissuto come un’autentica tragedia. Qualcuno si è spinto a chiedersi se l’eliminazione della nostra squadra nazionale calcistica dalla fase finale del Campionato del mondo che si disputerà in Russia l’anno prossimo non costituisca, dopo quella del 1943, una specie di nuova «Morte della Patria». 

Noialtri italiani ci siamo inghiottiti tranquillamente ogni sorta di sconfitte e di umiliazioni civili e sociali nel contesto internazionale: e le abbiamo sostenute senza batter ciglio, dando segno di non fregarcene più di tanto. Dell'orgoglio o anche soltanto della dignità nazionale abbiamo da decenni imparato a fare a meno. Ma questa batosta del pallone, evidentemente proprio non ci va giù.

Ora, siamo in attesa degli scenari che dovranno delinearsi nei prossimi giorni: ricerca dei responsabili; ripercussioni propriamente economico-finanziarie dello smacco (non dimentichiamo che il calcio è, fra l'altro, un colossale business); discussioni e polemiche all'interno della compagine calcistica nazionale e delle singole componenti anche locali di essa; probabile anzi prevedibile fermento nel turbolento e ormai ambiguo mondo dei tifosi, dominato dallo sciovinismo e dalla violenza; inevitabili ripercussioni di tutto ciò sulla politica. L'evento potrebbe, fra l'altro, dar luogo a una serie di fenomeni a catena, polarizzati in una direzione opposta: o grave almeno temporanea disaffezione per tutto quel che riguarda gli stadi e la loro presenza nella nostra società civile; oppure, al contrario, proliferazione delle polemiche e degli scontri, magari non solo verbali o mediatici. Non nascondiamoci il dato obiettivo di fatto che il mondo del calcio confina purtroppo con quello della malavita e della corruzione da un lato, con quello della violenza dall'altro. Insomma, anche sul piano della sicurezza i prossimi giorni potrebbero essere d'inquietudine e di tensione. 

Tutto ciò pone purtroppo anche un problema etico e culturale. Diciamolo senza mezzi termini: siamo un paese moralmente e culturalmente impoverito, un paese sull'orlo della miseria relativa a tutto quel che concerne la vita associata. A parte appunto il calcio domenicale, con tutto quel che si tira dietro (gran parte delle trasmissioni televisive della vigilia, del giorno stesso e di quello successivo, vale a dire di quasi la metà dell'intera settimana, sono dominati dalla sfera di cuoio e dalla sua «filosofia»), nonché qualche evento straordinario che continua a far da catalizzatore se non proprio delle passioni quanto meno degli interessi pensiamo al festival di Sanremo, ad esempio - il Paese è un deserto. Cinema e televisione, nonostante qualche isolato caso di qualità, sono meno che mediocri; il teatro in tutte le sue forme e la musica (si eccettuano alcuni grandi concerti postmoderni) languono a loro volta; la vita culturale in genere appare azzerata, e non saranno certo le varie Giornate o Settimane o Fiere dei libri, della filosofia, della letteratura e via discorrendo a risollevare le sorti di un paese nel quale (è doloroso il doverlo riconoscere, specie per noi anziani che ci abbiamo creduto) lo sforzo per una scuola e un'istruzione di massa hanno comportato lo scadimento generale della cultura, dell'istruzione e del loro rispettivo valore nella considerazione della società. Siamo ormai un paese dalle altissime percentuali di diplomati e dalle alte percentuali di laureati, ma dal bassissimo valore intrinseco dei titoli di studio e del rispetto nel quale essi vengono tenuti.

In un contesto del genere, a dire la verità, le esplosioni d'entusiasmo che accompagnavano lo sventolare della bandiera nazionale e le note bruttine, peraltro: riconosciamolo del Fratelli d'Italia durante le manifestazioni sportive in genere, calcistiche in particolare, mettevano a disagio molti di noi. Ci apparivano francamente ridicole quelle cianfrusaglie da deposito teatrale di periferia, «l'elmo di Scipio» e la Vittoria che avrebbe dovuto «porger la chioma» all'Italia che s'era «desta» perché era stata creata «schiava di Roma». Un armamentario patetico, da Maestrine della Penna Rossa del Cuore di De Amicis, chiassosamente ostentato da schiere di energumeni (e accompagnato magari da simboli politici ancor più imbarazzanti e inopportuni), mentre nei corridoi di leghe e di federazioni sportive fiorivano la corruzione e l'evasione fiscale. Quel patriottismo cialtrone e caciarone contrastava drammaticamente con lo spettacolo di un paese sempre più privo di senso civico: il paese delle crisi violente di teppismo, dei muri lordati di scritte e di disegni demenziali, delle continue violazioni dell'ordine civile, della convivenza e della sicurezza. Il paese della smobilitazione politica (quindi etica) e della continua mobilitazione teppistica. E questo clima dominava, domina la vita della penisola a partire dalla stessa scuola: non a caso è proprio il tifo calcistico uno dei territori preferiti delle manifestazioni del bullismo adolescenziale. Ormai, le magliette e la simbolica associativa delle squadre di calcio si sono per più versi e in più ambienti degradate a simboli di quelli che, nella violenza giovanile d'Oltreoceano, sono i colours.

Una sconfitta sportiva, in tempi e in situazioni normali, non dovrebbe affatto costituire un dramma. Nello sport, per definizione, non è il vincere bensì il partecipare che conta: chi perde onora il vincitore che lo ha battuto e si mette al lavoro immediato per assicurarsi una rivincita. Tale atteggiamento è le mille miglia lontano dalle reazioni di coloro che, ai giorni nostri, francamente ripugna dover definire «gli sportivi»: la grande scuola di lealtà e di solidarietà che lo sport dovrebb'essere, e forse nel passato è stata, ormai non è più nemmeno uno sbiadito ricordo. 

Risalire la china? Non si tratta di ricostruirsi gli strumenti per tornare a vincere le partite di calcio. Si tratta di ricostruire un contesto civico che appare ormai destrutturato. La politica, il lavoro, la scuola, la cultura, lo sport, la vita associata, le tradizioni, la stessa vita etica e perfino religiosa sono anelli della medesima catena: in una società civile, se una maglia di questa sequenza virtuosa non tiene anche il resto rischia di perdersi. E' la grammatica della solidarietà civile, è la sintassi del reciproco rispetto, è la stilistica della vita associata, che bisogna reimparar a declinare correttamente. Ma il Paese è stato a lungo affetto da una malattia cronica degenerativa che ne ha compromesso profondamente gli organi. Forse si avvicina il tempo nel quale si profilerà una terapìa d'urto. In quali modi e secondo quali strumenti, sarà la storia dei prossimi mesi a dircelo. Forse, già fin dalle prossime elezioni e dalle loro conseguenze. Sconsolati auguri, povera nostra Italia. 
 
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