La riflessione| L’inferno di un popolo senza radici

Domenica 26 Luglio 2015, 19:50 - Ultimo agg. 27 Luglio, 00:09
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Massimo Piccolo il 30 luglio alle ore 21 sarà protagonista a La Notte Bianca della Feltrinelli con il reading “Le Eroine del Sud” scritto a 4 mani con Agnese Palumbo e la presenza di Nello Mascia e Jennaro Romano. Tra i temi affrontati nello spettacolo quello del complesso fenomeno dell’Unità d’Italia che, dopo un secolo e mezzo, è ben lontano dall’essere sopito, basti pensare allo straordinario successo della puntata di Alberto Angela dedicata ai Borbone e alle polemiche suscitate dall’articolo scritto per il Corriere del Mezzogiorno dal professore Giuseppe Galasso (L’invenzione del Paradiso borbonico).



Massimo Piccolo, appassionato e studioso di storia e comunicazione (laureato e perfezionato all’Università Federico II proprio con una tesi sul Risorgimento) anticipa qui la sua prospettiva.










L’inferno di un popolo senza radici.



Quello che colpisce del richiamo dell’esimio professore Giuseppe Galasso, classe 1929, formatosi nel pieno di quello che è stato definito l’approccio teologico al Risorgimento (anche da Lucy Riall della London University) non è certamente lo stigmatizzare l’uso improprio di discutibilissimi testi pro-borbonici o meglio ancora anti-risorgimentali, spesso poco più che narrativa spacciata per storiografia che attinge da fonti inattendibili quando non fasulle (e in questo internet ha non poche colpe), né il giustificare la volontà delle case editrici di stampare e spingere queste vendite per “la moneta”.



Quello che colpisce è l’individuare la causa come reazione ai movimenti (ex)separatisti o localistici come la lega. Adesso, che il movimento storico revisionista abbia preso piede negli anni ’90 è indubbio, ma che il movimento sia iniziato almeno venti anni prima è innegabile. E in aggiunta, pensare solo a questa come causa, a mio avviso, non è assolutamente sufficiente a spiegare un fenomeno di ben altra portata e importanza.



E’ possibile che ancora oggi non si riconosca che per “fare gli italiani” ci sia stato bisogno, sicuramente per prassi e in buona fede, di operare una complessa operazione di “rimozione della memoria”? Poteva bastare cambiare il nome alle strade e impossessarsi di Palazzi e Regge perché una Capitale diventasse provincia nell’arco di due mesi? O inventare la storiella della pizza margherita perché i napoletani diventassero devoti al re francese?



Come si può non riconoscere che questo vuoto abbia generato dei mostri, come una distanza mai colmata con le istituzioni? A meno di non volersi accontentare della tanto amata frase usata dalla propaganda risorgimentista del “Paradiso abitato da diavoli?



E come dimenticare il peso della rappresentazione negativa diffusa dei meridionali nata con gli esuli del ’48, per lo più borghesi costretti (a differenza di quelli del ’21) a integrarsi con molta fatica nel tessuto del nuovo Paese ospitante e perciò, come splendidamente spiega Marta Petrusewicz, latori di giudizi bipolari positivo/negativo tra la nuova patria e quella di origine creando tutta una serie di antinomie civiltà/barbarie, dolcezza/dolore, progresso/arretratezza, libertà/tirannia ?



E come non riconoscere lo stesso meccanismo nei nuovi “esuli”, quelli della migrazione interna del dopoguerra fino alla fine dello scorso secolo e quelli della migrazione esterna del nuovo millennio ?



Si può ignorare questo complesso di inferiorità indotto a tutto i meridionali dal razzismo, non solo sul piano sociale e nei media, ma addirittura sui libri di testo, dove la lunga storia del regno dei Borbone era liquidata in poche righe, tutte negative, e vista solo come preparazione alla “liberazione” da parte degli eroi del Risorgimento (e di come siano stati inventati questi eroi ci illuminano immensi storici, a partire da D. Mack Smith a seguire).



Poteva quindi bastare per sempre la favoletta dei mille dell’eroe “biondo, bello come un dio”, a cancellare quella che in realtà fu una sanguinosissima guerra, prima di conquista verso uno Stato libero, indipendente e neutrale (tale era il Regno delle due Sicilie) che vide impegnati oltre 100.000 soldati e poi guerra civile trascinatasi per anni (come riporta, tra gli altri, anche l’esimio professore Roberto Martucci dell’università del Salento).



Può un busto di Cavour in ogni città far dimenticare la strage di Bronte o lo scempio a Michelina de Cesare?



Illudersi che quello dei Borbone fosse un paradiso lasciamolo alle fantasie dei neo-borbonici, ma essere orgogliosi che le nostre radici affondino in un Regno che ha sicuramente più meriti e gloria, per noi meridionali, della breve parentesi savoiarda iniziata con le stragi di migliaia di meridionali e terminata con la morte di centinaia di migliaia di italiani forse può rappresentare un buon punto di inizio per ripartire.



Massimo Piccolo