«Io, laureata in ingegneria: ho studiato una vita per due euro all’ora»

«Io, laureata in ingegneria: ho studiato una vita per due euro all’ora»
di Gloria Marasco
Domenica 12 Settembre 2021, 23:11 - Ultimo agg. 14 Settembre, 09:25
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Mi sono laureata da sola davanti a un computer, d’estate, in una stanza vuota, la stessa cui ero stata costretta durante il lungo lockdown. Ho iniziato i primi colloqui di lavoro, in quella stessa stanza, per via telematica. A dicembre ne avevo collezionati oltre trenta. Un numero altissimo per un ingegnere magistrale. Non essere automunita è stato, indubbiamente, un problema. Ho accettato a fatica fosse così, perché ero pronta a prendere treni, autobus, svegliarmi presto e tornare tardi, ma prendere i mezzi pubblici, nel 2020, significava aumentare il rischio di infettarsi di Covid e le aziende, questo rischio, non se lo volevano assumere. In altri casi, le conoscenze acquisite, per quanto complesse e affascinanti, si prestavano più al mondo della ricerca che a competenze spendibili in azienda. Avevo perso l’unica occasione di colmare il gap tra il mondo accademico e quello del lavoro con una tesi svolta interamente da casa, in quarantena. Tutto questo non bastava a rasserenarmi. Perché non riuscivo ad ottenere un lavoro? Non rendevo abbastanza, ai colloqui? Sindrome dell’impostore? Autosabotaggio? 

A dicembre, stremata, reduce dall’ultimo Speed date tra aziende e neolaureati, ho conquistato una multinazionale.

Mi è stato offerto un tirocinio di sei mesi, assicurandomi sarebbe stato un investimento reciproco nella mia formazione che mi avrebbe garantito un futuro in azienda. L’agenzia che ha mediato i nostri contatti mi ha spronato a procurarmi urgentemente un’automobile, come requisito per favorirmi l’ingresso. Ho ceduto e accettato, avrei trovato il modo.

Convinta sarebbe stato l’inizio del futuro sperato, ho iniziato la mia prima esperienza lavorativa. Ho percorso sessanta chilometri tutti i giorni, per andarmi a sedere davanti a un computer e non fare niente. Niente, anche a fronte delle mie disperate richieste di essere resa partecipe. Mi sono chiesta - fino a convincermi di sì - se fossi io il problema, se non fossi all’altezza del mestiere per cui avevo studiato tutta la vita e, più nel profondo, se fossi un’inetta, indegna anche di svolgere la più banale attività. Mi sono interfacciata con un responsabile maschilista e indolente. Ho affrontato ogni giorno col magone, contando ogni singolo minuto delle otto ore cui mi sentivo costretta in ufficio, dicendomi che ne sarebbe valsa la pena, che avevo resistito tanto, ma avrei finalmente avuto un contratto e avrei raggiunto l’agognata stabilità.

Ho stretto i denti ogni volta in cui ho posto il problema a qualcuno e ho ricevuto come risposta che tutto fosse nella norma, perché era di un tirocinio che si stava parlando. Un tirocinio svilente e svalutante, alla fine del quale mi è stato detto che, diversamente da quanto informalmente accordato all’inizio, non ci sarebbe stato un seguito. Il budget aziendale non consentiva, infatti, l’assunzione di un dipendente.

Mi sono ritrovata così, a un anno dalla laurea, con qualche briciola di competenza da mettere sul curriculum, un’autostima annientata, un’auto da pagare, a provare a ricostruire un progetto futuro. Scrivo questa lettera perché non ho nessuno che mi ascolti e voglio essere ascoltata. 

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Il tirocinio non è un rapporto di lavoro, ti lascia esattamente nelle stesse condizioni in cui eri, senza diritti e aiuti. Nonostante questo, l’indennità mensile percepita è tassata. Ho accettato con sofferenza l’Irpef di ogni mese e con l’ultimo accredito ho ricevuto 136,37 euro. Meno di due euro l’ora. 136,37 euro per essere andata al lavoro ogni giorno per due settimane. Essere stata professionale e disponibile fino all’ultimo minuto. Metà della cifra che pago per la mia stanza in affitto. Stanza. Meno del bollettino mensile della macchina. Sufficiente a pagare la benzina. Un compenso che, a causa delle trattenute, è risultato pari a un terzo di quello che mi aspettavo di ricevere. Mi sento impotente. Disincantata. Non è una sensazione nuova, è piuttosto uno schema che si ripete con regolarità. Mi ero iscritta a ingegneria per mero pragmatismo. Perché in un mondo che evolve velocemente come quello in cui ci muoviamo, che condanna all’oblio professioni in modo imprevedibile, l’unico modo di stare al sicuro è essere chi innova. Ho represso ogni desiderio a favore di stabilità e sicurezza, anche quando sentivo di essere più tagliata per altro, che sarei stata felice altrove.

Non sono più disposta a farlo. Per alcuni miei desideri è troppo tardi, ma c’è una strada che sono pronta a percorrere: l’insegnamento. Precaria per precaria, tanto vale consumarmi per qualcosa che voglio davvero. I miei genitori sono meridionali, emigrati, con il grado di istruzione minimo. Ho fatto, ogni volta, il doppio della fatica dei miei compagni. Non mi pento di aver studiato tutta la vita. L’ho fatto per me e per loro. Non è bastato. Allora, satura di delusione, mi faccio portavoce di chi sognava un futuro diverso e, come me, si trova ad annaspare: non diteci che se vogliamo, possiamo. Se vogliamo, possiamo, a patto che non ci ostacoliate.

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