La prima volta di Castagna:
«Il canale di Suez a nuoto,
in banca la seconda sfida»

La prima volta di Castagna: «Il canale di Suez a nuoto, in banca la seconda sfida»
di Maria Chiara Aulisio
Venerdì 5 Giugno 2020, 09:48 - Ultimo agg. 6 Giugno, 20:13
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La prima volta che Giuseppe Castagna - anzi, il Cavalier Giuseppe Castagna - capì che l'acqua sarebbe stata un elemento imprescindibile della sua vita fu quando da bambino finì nella vasca dei pesci della Mostra d'Oltremare - senza mostrare la benché minima paura, e anzi non volendo più venirne fuori. Sua madre non seppe mai se il piccolo Castagna - futuro amministratore delegato del Banco Bpm, appena nominato Cavaliere del Lavoro dal presidente Mattarella - in quella piscina ci cadde per caso o, come invece sospettò quasi subito, ci si tuffò volontariamente. Fatto sta che, da quel giorno, Giuseppe cominciò a seguire i corsi di nuoto insieme con suo fratello e sua sorella.

Quanti anni aveva?
«Forse quattro, o addirittura tre. In ogni caso, troppo pochi perché potessi nuotare nella piscina della Mostra, dove invece si allenavano i miei fratelli più grandi. Quel tuffo tra i pesci rossi rappresentò la svolta».

Allora è vero che non fu un caso?
«Sinceramente, non me lo ricordo. Però, bastò a far capire a tutti la voglia che avevo di nuotare: ero stufo di stare sempre a bordo piscina».

Perché a bordo piscina?
«Premessa: vengo da una famiglia di nuotatori. Mio nonno, i miei fratelli... Mamma, poi, era una appassionata. Insomma, a casa mia non si concepiva altro sport: tutti in piscina, e chi era troppo piccolo guardava. Ho imparato a nuotare osservando gli altri. Ma dopo quel bagno con i pesci, l'istruttore mi diede la possibilità di partecipare ai corsi, benché fossi il più piccolo di tutti». 

E lei non si tirò indietro.
«Non aspettavo altro. Cominciai a nuotare con impegno, anche per emulare Maurizio, mio fratello più grande, che riscuoteva ottimi successi a livello nazionale. A otto anni ero già in giro per l'Italia a fare gare».

Riusciva a conciliare scuola e sport?
«Ricordo quando arrivavo all'Umberto, alle 8 di mattina, con il cappellino calato sugli occhi per coprire i capelli ancora bagnati. Prima mi allenavo, poi andavo a scuola».

Grandi sacrifici.
«Senza dubbio. Però vincere era una soddisfazione. Si faticava, è vero, ma mi divertivo anche: le trasferte, le gare, gli scherzi tra noi - un gruppo di ragazzi sano e con la voglia di farcela. I miei amici, quelli veri, sono rimasti loro, i compagni del nuoto».

Quali vittorie ricorda con maggiore entusiasmo?
«Ogni gara è una sfida a sé, e ogni sfida è diversa dall'altra. La verità è che si vince con la testa, il fisico viene dopo».

Quante volte è salito sul podio?
«Tante. E poi sono stato undici volte campione italiano giovanile 100 e 200 metri delfino». 

Un talento, insomma.
«Anni Settanta, Napoli era un'eccellenza dal punto di vista sportivo: il circolo Canottieri, Fritz Dennerlein che vinceva a mani basse - un momento magico». 

Agonismo prima di tutto. Ma al lavoro che avrebbe fatto da grande ci pensava mai?
«Non avevo le idee troppo chiare. Ero molto concentrato sullo sport e, quando si trattò di scegliere l'università, mi iscrissi a Giurisprudenza».

Chiunque avrebbe scommesso sui suoi studi economici.
«Fu la prima facoltà che scartai». 

Voleva diventare avvocato?
«Mi interessava di più il concorso in magistratura. La mia fu comunque una scelta dettata dalla voglia di continuare a nuotare: la frequenza a Legge non era obbligatoria e i tempi di studio avrei potuto dettarli io».

Dica la verità: le bastava essere uno sportivo.
«Avendo imparato fin da bambino, fare due cose insieme per me rappresentava la normalità. Allenamento e studio; e che una delle due attività potesse non essere svolta in maniera più che soddisfacente, a casa mia non era previsto». 

Genitori severi?
«Regole precise e senso del dovere, direi. Siamo cresciuti così. Ecco, se potessi racchiudere i loro insegnamenti in uno slogan, sarebbe questo: Fai quello che vuoi, purché con il massimo impegno».

E lei così ha fatto. 
«Disciplina e spirito di sacrificio, non si sbaglia mai». 

Torniamo allo sport. Una prima volta che non dimentica?
«Quando ho partecipato alla maratona di Gran fondo».

Di cosa si tratta? 
«È la gara acquatica più lunga del mondo, la prima fu la Coronda-Santa Fe: 56 chilometri nel Rio Paranà, in Sud America. Per fortuna, si svolgeva in favore di corrente».

E lei ce l'ha fatta?
«Otto ore e 50 minuti. Fu tale la sorpresa che un giovane esordiente si classificasse così bene che mi conferirono la cittadinanza onoraria di Santa Fe». 

Dalle vasche italiane al Rio Paranà. Come mai?
«Manca un passaggio».

Quale?
«Il servizio militare nel gruppo sportivo dei Carabinieri. Mi arruolai a 18 anni: erano gli unici, i militari, a fare anche gran fondo. Così mi ritrovai in Sud America e subito dopo attraversai il Nilo - 42 chilometri di cui la metà contro corrente -, il Canale di Suez e, naturalmente, la Capri-Napoli».

Ha mai pensato di non farcela, mentre nuotava?
«Quasi sempre. L'ho già detto: sono gare che hanno bisogno di una forte predisposizione mentale. Quando ti prende la fame, la sete, la stanchezza... o è la testa a farti andare avanti oppure molli». 

Lei è uno di quelli che andava avanti.
«Senza sosta. Nei tre anni di servizio militare riuscii anche a studiare con successo all'Università. Poi, però, la mia vita cambiò, insieme con il desiderio di continuare a nuotare in giro per il mondo».

Cosa accadde?
«Nelle 11 ore di maratona nel Nilo, presi un'infezione tropicale che mi creò non pochi problemi, e improvvisamente morì anche mio padre. Avevo 21 anni. Ricordo ancora il giorno in cui mia madre fece capire che era arrivato il momento di pensare al futuro. In pratica, dovevo cercarmi un lavoro».

Ma se neanche aveva finito l'Università.
«Due cose insieme, qual era il problema? Mai nella vita ne avevo fatta una alla volta. Fu proprio grazie all'appartenenza ai Carabinieri che trovai il primo lavoro».

Dove?
«In banca. Gli istituti di credito si rivolgevano all'Arma per avere qualche nome tra i giovani più meritevoli. Fecero il mio, e così mi ritrovai impiegato della Banca Commerciale Italiana. Altri tempi: assunzione immediata, nonostante mi mancassero ancora cinque esami. È chiaro che le mie imprese sportive contribuirono a convincerli». 

Da impiegato a amministratore delegato: dalla base al vertice. Bel successo.
«Eppure, ero convinto che sarebbe stato solo un lavoro di passaggio, in attesa di fare altro».

Che cosa aveva in mente?
«Sempre il magistrato. Però, più lavoravo in banca, più mi piaceva e venivo apprezzato. Cominciarono a mandarmi in giro per le filiali di tutta Italia. Viaggiavo sempre con i libri in macchina, ogni momento era buono per studiare».

Quando ha capito che la banca sarebbe stata il suo futuro?
«Ho cominciato presto a fare carriera. Da direttore di filiale mi ritrovai in Inghilterra: le responsabilità aumentavano, e anche la passione per il lavoro. Ero a Londra negli anni in cui cambiava il mondo finanziario - una grande emozione. Così come quando mi chiesero di tornare nella mia città, dopo trent'anni, per guidare la banca territoriale più importante del gruppo: il Banco di Napoli».

Di nuovo a casa.
«Tre anni indimenticabili, dal punto di vista umano e professionale. La carriera è andata avanti veloce. Poi, nel 2013 lasciai il gruppo Intesa e, dopo una felice parentesi dedicata a lanciare un fondo di Private debt, eccomi in questa straordinaria avventura che è banco Bpm - la terza banca del paese nata dalla prima e unica fusione in Europa sotto il controllo della Bce».
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