Lavinia, la missione della madre: «Mia figlia uccisa da una statua ora rivive tra i bimbi africani»

La mamma della bimba morta a Monaco va in Malawi

Valentina Poggi con i bimbi del Malawi; a destra, Lavinia
Valentina Poggi con i bimbi del Malawi; a destra, Lavinia
di Maria Chiara Aulisio
Giovedì 22 Dicembre 2022, 00:03 - Ultimo agg. 23 Dicembre, 07:01
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È appena tornata dal Malawi, uno dei paesi più poveri e affollati del continente africano - tra lo Zambia e la Tanzania - dove il sessantacinque per cento della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno e la metà dei bambini soffre di malnutrizione. È qui che pietra su pietra sta nascendo un villaggio che mette al centro proprio loro, i bambini, piccole creature bisognose di tutto.

Si chiamerà, anzi già si chiama, “il mondo di Lalla” nel nome e in ricordo di Lavinia Trematerra, uno scricciolo di appena sette anni, rimasta schiacciata sotto il peso di una statua di marmo nel giardino di un hotel nel centro di Monaco di Baviera dove era in vacanza con la mamma e il papà, entrambi avvocati, entrambi determinati a portare avanti questo progetto a tutti i costi perché “lei così vorrebbe e noi così faremo”. Valentina Poggi ripercorre le fasi di una vicenda che a distanza di qualche mese ancora non sembra vera.


Era il 26 agosto.

«A volte è come se avessi la sensazione di vivere in un film. Mi dico: ora finisce e tutto torna come prima. Purtroppo non è così e allora vado avanti e sopravvivo».

Con suo marito Michele siete appena tornati dall’Africa.

«Esperienza incredibile, un viaggio sì doloroso, ma ora il cuore ci scoppia di gioia.

Una delle immagini che ho negli occhi è quella di un gruppo di bambini che gioca a calcio con una palla fatta di buste di plastica. E ridevano, e scherzavano, felici come se avessero avuto il gioco più bello del mondo».

Povertà assoluta.

«Non si può immaginare, devi solo andarci per capire come si vive in quei paesi. Ve ne racconto una: sapendo del nostro arrivo i volontari ci hanno chiesto di portare delle caramelle e hanno specificato che dovevano essere “Chupa Chups”».

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Perché?

«Una caramella qualunque la scarti, la mangi e in pochi istanti è finita. Il “Chupa Chups” invece gli può durare anche una settimana: ne leccano un po’, lo avvolgono di nuovo nella carta e lo conservano».

Che altro avete portato in Africa?

«Settanta chili di valige. Tutto quello che abbiamo potuto: vestiti, scarpe, i bambini vivono a piedi nudi e d’inverno lì fa freddo. Tant’è che abbiamo portato una gran quantità di pantaloni e pullover di lana. Sul posto invece abbiamo comprato 400 chili di grano, 400 di zucchero e 500 coperte. E poi i farmaci, anzi, se posso, ringrazio volentieri le farmacie Leone e Romano per la quantità di medicine che ci hanno regalato».

Quali in particolare? Di che cosa c’è bisogno?

«Serve tutto. Manca perfino il disinfettante per pulire una ferita se qualcuno si fa male. E poi gli antibiotici: a furia di bere acqua sporca sono quasi tutti affetti da infezioni intestinali».

Come è nata l’idea di costruire il “villaggio di Lalla” in Malawi?

«Un tentativo disperato di provare a dare un senso alla morte di nostra figlia e cercare di andare avanti con un obiettivo che lei, se pur piccina, avrebbe condiviso con l’entusiasmo che caratterizzava la sua vita».

La storia di Lavinia ha toccato il cuore di tutti.

«È così. Ricevo continuamente attestati di affetto e solidarietà. Anche per la realizzazione di questo villaggio c’è tanta gente, molti che nemmeno conosco, pronta a darmi una mano. E vi assicuro che ne ho un gran bisogno».

Lavinia ormai è diventata un simbolo.

«È vero. A volte mi viene da pensare che forse, in qualche modo, se lo sentiva». 

In che senso?

«Con mio marito Michele ci ritroviamo spesso a ricordare quello che ci diceva e tante parole, oggi, è come se avessero un significato diverso».

Un esempio.

«Lalla amava disegnare, ballare, cantare. Una delle sue canzoni preferite era “Over the Rainbow”. Faceva parte del coro propedeutico alle voci bianche del San Carlo. “Mamma” - mi ripeteva spesso - “vedrai, diventerò famosa”. Alla fine lo è diventata, di lei hanno parlato tutti».

Qualcuno ha pagato per quello che è successo a Lavinia? 

«Nell’efficiente Germania è tutto fermo. L’avvocato ci ha appena comunicato che non hanno ancora neanche scritto i rilievi per le perizie e non c’è traccia nemmeno dei risultati dell’autopsia fatta ad agosto».

Eppure la vicenda è fin troppo chiara: quella statua non era fissata al suolo ed è finita addosso alla bambina.

«Chiara per noi, evidentemente non per loro. È intervenuta anche la procura di Roma per avere notizie: da Monaco hanno risposto che prima devono chiudere le indagini e poi ci faranno sapere. Lasciamo perdere». 

Dovreste avere anche un risarcimento.

«Andremo avanti per ottenerlo. E ogni centesimo che riusciremo ad avere sarà investito nel “villaggio di Lalla”». 

A che punto è la costruzione?

«La scuola è quasi finita, il tetto sarà colorato come sono sicura che lo avrebbe disegnato Lavinia. Nello stesso tempo stiamo allestendo un presidio sanitario, c’è tanta malaria, un pozzo per l’acqua potabile, una mensa, un allevamento di galline e un’area per il gioco e lo sport. Devo dire grazie a Carlo Flamment, presidente della Fondazione “Cucciolo”, a Tiziana Leone e Margherita Grasseli di “Africasottosopra”: senza il loro lavoro la vita dei bambini africani sarebbe ancora più dura».

Quando tornerà in Malawi?

«Presto, molto presto. Lì ho lasciato un pezzo di cuore. Stavamo per andare via quando da una capanna sono spuntati tre bambini, ci guardavano sorridendo e ognuno stringeva un pupazzo tra le mani. Non riuscivo a crederci, erano Minnie, Dumbo e un criceto di pelouche, gli stessi dai quali mia figlia non si separava mai». 
 

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