Loreto mare, se a Napoli questo è un ospedale

Loreto mare, se a Napoli questo è un ospedale
di Francesco de Core
Sabato 16 Giugno 2018, 11:13 - Ultimo agg. 17 Giugno, 12:43
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Cosa accomuna l’angoscia esistenziale del protagonista di uno dei romanzi più celebri del Novecento alla sfrenata felicità di un padre nell’ospedale Loreto Mare di Napoli? In apparenza nulla. Però, a ben vedere, qualcosa c’è. E non di poco conto. Ne è passato di tempo da quando Italo Svevo faceva appuntare al fumatore incallito Zeno Cosini persino su parete la (poco) ferma intenzione di incenerire seduta stante la sua Ultima Sigaretta.
 

 

Writer ante litteram, come del resto precursore fu nel suo più vasto campo narrativo, Svevo non avrebbe neppure lontanamente immaginato che i muri d’ogni luogo e latitudine sarebbero poi stati imbrattati da frammenti di discorsi amorosi (ben lontani, purtroppo, da quelli di Roland Barthes) come da slogan (para)politici insulti sfottò particolari anatomici, ciascuno greve o lieve a modo suo. Graffitismo a parte, perché il discorso si sposta sull’asse pur discutibile dell’arte, c’è che realmente – come sosteneva Jean Baudrillard – le città postmoderne (le nostre) sono diventate «il poligono dei segni». Nulla è risparmiato, tutto è (ri)codificato. Persino oggi, che l’oltraggio si è spostato sul terreno indefinito dei social, molti preferiscono la solidità di una parete, come Zeno, alle parole rotolanti su Facebook. Come la cruna di un ago, diventa sempre più piccolo – nel senso di marginale – ogni riferimento al rispetto, alla buona educazione, ai modi cortesi – un bagaglio assottigliatosi drammaticamente nel tempo. Così, pur nell’ingenuo intento di voler trasportare nella dimensione dell’eterno il proprio nome magari su una statua antica, su un reperto, sulla facciata di un edificio storico, resta il marchio selvaggio e distruttivo che si trasmette ai posteri, niente altro che lo sfregio ignorante di una (in)civiltà dilagante.

E veniamo così al Loreto Mare. Che poi è un ospedale di frontiera «segnato» come molti altri, in Italia, peraltro ormai quasi del tutto svuotato – come ribadito ieri in un reportage da Repubblica Napoli. La tracimazione dei sentimenti nel reparto di Ginecologia colora (o meglio: deturpa) muri, sedili, porte. Nulla viene preservato allo squillo del primo vagito; la gioia incontinente eruttata dopo la nascita di un figlio è tale che le mura del reparto diventano d’improvviso un enorme quaderno dove indicare a chiare lettere data, nome e peso del neonato. Gli esuberanti non si limitano a una iscrizione discreta, lavorano di bomboletta spray per evitare che magari, nel caos del mondo, qualcuno decida di dimenticare l’Antonio, la Marianna, la Desirée, il Niko, la Susy di turno venuti alla luce. Fin qui la tenerezza, che copre – ma non cancella – la malacreanza degli sguaiati; resta indelebile come certo inchiostro il dato triste nella sua oggettività di un reparto d’ospedale costantemente ridotto a un bagno d’autogrill. Qui non c’entrano più né il gaudio né la grafomania. A quanto pare, considerata la data dell’iscrizione che campeggia a caratteri cubitali nella sala d’attesa, c’è da presumere che i dirigenti del Loreto Mare si siano arresi all’evidenza da un po’ di anni – o almeno dal 2014 in poi. Neppure una mano di pittura per ritinteggiare quello che, nel giro di poche ore (o forse giorni, considerato il calo demografico), diventerebbe inevitabilmente il nuovo libro bianco per altri nati. 

La civiltà, o quel poco che resta, va comunque difesa anche nelle piccole cose, che probabilmente tanto piccole non sono. Un reparto d’ospedale non è una galleria, né di opere d’arte (pare non ci sia in circolazione un Haring) né tantomeno di pur poetiche urla scarabocchiate. E questo dovrebbero saperlo non solo gli esultanti papà che scambiano un nosocomio per la curva di uno stadio e il buonsenso per viltà ma anche quanti hanno la responsabilità di aver cura di una struttura pubblica. Che, proprio perché tale, necessita di maggiore applicazione. Certo, facendo – nella fattispecie – funzionare una Tac e/o sale chirurgiche modernamente attrezzate. Ma anche chiamando una squadretta di imbianchini una volta all’anno, non di più, per garantire almeno qualcosa che somigli al decoro e alla pulizia.
 

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