La "Mensa proletaria", quel modello solidale della Napoli popolare

L'esperienza nata nel '73 a Montesanto, ecco bilanci e ricordi cinquant'anni dopo

La mensa di Montesanto
La mensa di Montesanto
di Titti Marrone
Giovedì 2 Marzo 2023, 09:00
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Approfittiamo dell'immagine riflessa oggi da Napoli: un mio amico di fuori che qualche anno fa feriva il mio orgoglio partenopeo spiegandomi che non se la sentiva di venire per via di «tutti quei bambini sparati per le strade», ora vuol farsi invitare nella città dalla reputazione "brilliant" costruita a colpi di amiche geniali, fiction di successo e una squadra di calcio miracolosa. Approfittiamo di questo nuovo corso favorevole anche per far conoscere aspetti della storia cittadina poco conosciuti ma fortemente significanti, in tempi d'insensatezza della politica e dell'intero discorso pubblico.

E allora qui proviamo a ricordare un'esperienza cominciata cinquant'anni fa, che riprese e rilanciò in modo creativo l'antica vocazione della città per la cura dei bambini, non lontana dallo spirito della Nave Caracciolo dei primi decenni del '900, della Casa dello Scugnizzo di padre Borrelli, dei treni del bambini in Emilia-Romagna nel dopoguerra, e insieme profondamente diversa: l'esperienza della Mensa dei Bambini Proletari di vico Cappuccinelle avviata nel marzo del 1973 e durata per una decina di anni.



Sette stanze ariosissime dietro Montesanto lasciate libere da quelli di Servire il Popolo, un cortile ampio e assolato con un grande albero di fico, un gruppo di militanti e simpatizzanti di Lotta Continua più altri volontari "cani sciolti" a organizzare mille attività per i bambini del quartiere. E ogni giorno, all'una e mezza, un centinaio e più di loro arrivavano affamati appena uscivano dalla scuola, altri lasciavano tazzulelle e vassoi interrompendo la consegna del caffè in negozi e uffici, altri ancora mollavano il bancariello delle sigarette di contrabbando. Correvano "'ncopp' add'e comunisti".

Cioè: alla Mensa e comunisti, invece di mangiarsi i bambini come ancora negli anni Settanta qualcuno diceva, davano loro da mangiare. In un quartiere sottoproletario significava, nel politichese del tempo, «assecondare un bisogno primario socialmente sentito». E quindi il pentolone di ziti al sugo, la pasta e piselli, la cotoletta, le polpette e pure le macchie di salsa che arrivavano fino alle pareti, tecnicamente erano materia politica.

Ma la Mensa fu assai di più. Fu un progetto meditato, studiato e messo in pratica con impegno e assoluto rigore da un nucleo di giovani ed intellettuali di allora variamente orientati sul piano ideologico ma con uno slancio comune verso i bisogni collettivi dei ceti disagiati. Con il cattolico del dissenso Geppino Fiorenza, lottacontinuista "crocianamente" cristiano, a mettere a punto il progetto furono il futuro maestro di strada Cesare Moreno e la pedagogista e scrittrice Carla Melazzini con sua sorella Luisa, Peppe Carini e Berit Frigaard. Al loro fianco sarebbero arrivati Goffredo Fofi, Fabrizia Ramondino, Lucia Mastrodomenico, Luciano Carrino, Roberto Landolfi, Pierluigi Cerato, Stefano De Matteis, Adele Nunziante Cesaro, Vittorio e Luciana Dini, Peppe Avallone e molti altri. Giovani legati a LC e non solo, ma anche non militanti, tutti volontari - allora però non si diceva così - con l'eccezione della cuoca Costanza, ex operaia della Cirio a cassa integrazione, giustamente stipendiata, con 80mila lire al mese. Affiancata gratuitamente da Maria Compagnone, sorella di Luigi, che in ossequio ai princìpi del presidente Mao lavava i piatti pur essendo un'intellettuale. Cosa che veniva fatta fare a tutti, da Domenico de Masi a Luigi Comencini, quella volta che alla Mensa venne a parlare del suo Pinocchio.

E non fu solo Mensa: quelle sette stanze ospitarono innumerevoli laboratori per i bambini con tecniche didattiche che guardavano a Montessori, Frenet, i Cemea, elaborate dal gruppo che avrebbe dato vita alla cooperativa Lo cunto de li cunti. E poi doposcuola, campi estivi, gruppi di animazione teatrale, musicale, di scrittura, di giornalismo, di fotografia. La Mensa diventò - sempre come da lessico del tempo - «luogo di aggregazione» e di riunione di una sinistra giovanile fuori dagli apparati di partito. Qui si organizzarono seminari, riunioni di coordinamento della galassia extraparlamentare, dibattiti, lotte per l'autoriduzione delle bollette e contro il carovita. Poi ancora la scuola popolare di musica lanciata da Peppe Merlino e Pasquale Scialò, con violinisti del San Carlo come maestri e il giovane Daniele Sepe per il flauto dolce. E perfino una sfilata di moda con le immigrate del quartiere in veste di sarte e anche di modelle realizzata da Lucia Mastrodomenico, che era più bella di una star di Hollywood ma non se ne curava. Il gruppo che con Carrino portava a Napoli l'esperienza di Basaglia insieme a Sergio Piro, dopo il colera del '73 istituì un servizio volontario medico cui si aggiunsero Paolo D'Argenio, Roberto Landolfi, Renato Rotondo e i fratelli Greco.

Un giorno Piero Cerato visitò una donna con sintomi strani e le diagnosticò la polinevrite da collante, contratta da altre lavoranti a domicilio inalando la colla per pellami da guanti e borse prodotti per la ditta Valentino: l'immunologo Massimo Menegozzo ne riscontrò la diffusione in una ricerca capillare e la Mensa fece causa a Valentino, riuscendo ad ottenere un indennizzo per le lavoratrici ammalate. Poi venne la possibilità di un servizio di leva sostitutivo per gli obiettori di coscienza, poi l'istituzione di un centro di documentazione e ricerca con l'impegno di Amato Lamberti, poi il sostegno legale con avvocati come Marinella De Nigris. E ancora mille altre iniziative, idee e progetti fecero della Mensa una realtà assolutamente unica nel suo genere. Adriano Sofri, il leader di Lotta Continua, difese fin dall'inizio la Mensa, che l'estrema sinistra sfotticchiava chiamandola "la trattoria di sor Geppetto".

A destra l'iniziativa fu attaccata da nostalgici laurini e monarchici, che criticavano l'esportazione all'esterno dell'immagine di una città morta di fame. «Ci fanno fare figure di merda fino alla Norvegia», scrissero sui loro giornali. Il riferimento era all'iniziativa della norvegese Berit Frigaard Bonuomo, che aveva sposato un napoletano ed aveva l'incarico di raccogliere fondi, così aveva promosso una sottoscrizione sul quotidiano di Oslo. Aderirono in tanti (e meno male, perché nutrire 150 bambini al giorno era un'impresa) e tra gli altri italiani Camilla Cederna, Vera Lombardi, Maurizio Valenzi, Antonio Ghirelli, Francesco Rosi, Dario Fo, Franca Rame, Franca Faldini, Elsa Morante. Una foto di Peppe Avallone mostra l'autrice del Mondo salvato dai ragazzini con un fazzoletto in testa, in mezzo ai bambini nel cortile della Mensa, e ne è diventata un po' l'icona.

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