Minorenni estorsori della camorra, la «riserva dei boss»

di Isaia Sales
Mercoledì 26 Dicembre 2018, 10:00
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I minori che a Napoli si muovono nell'incerto confine tra innocenza e violenza, tra ansia di crescere e aggressiva strafottenza, tra arte di arrangiarsi e quella di sopraffare, hanno avuto nomi diversi in epoche diverse. Guaglione, picciotto, scugnizzo, sciuscià, muschillo, e addirittura baby-killer. Non monello, bullo, discolo, ragazzaccio, appellativi usati in altri parti d'Italia e all'interno di altre classi sociali nella città partenopea. Perché a Napoli un minore non può permettersi una semplice crisi di crescita, un disagio della pubertà, una devianza provvisoria prima della maggiore età o mestieri di strada come nell'Ottocento e appena dopo la seconda guerra mondiale. No. Non si è liberi qui (per paradosso) di essere minore e avere qualche problema, perché quei problemi conducono- con elevate probabilità- nelle braccia degli adulti criminali e camorristi, in particolar modo se si proviene da determinati quartieri e da specifici contesti sociali.

Che dei ragazzini di 15 anni vengano utilizzati da clan di camorra non è certo una novità. È una novità che svolgano la funzione di estorsori, di raccoglitori di soldi dai commercianti nel periodo natalizio così come un'indagine della magistratura (riportata dal Mattino di ieri) ha evidenziato per il rione Sanità. In genere il compito di estorsore richiede volti che siano capaci di incutere paura e scoraggiare eventuali rifiuti, volti adulti e solcati da esperienze di sangue. I minori per lo più vengono utilizzati da diversi decenni come corrieri di droga, pusher, sentinelle, portatori di armi, proprio per la loro impunibilità e per la loro velocità di spostamento a piedi e in motorino, e definiti appunto muschilli per essere piccoli e sguscianti sui loro motorini.

Certo, già a fine Ottocento le statistiche segnalavano un primato della città partenopea per minori sottoposti a denunce, condanne e ricoveri in istituti preposti. Allora si chiamavano scugnizzi e si segnalavano per furti di destrezza (il più diffuso era quello del fazzoletto di seta, così come avveniva nella Londra di Oliver Twist) per lavori ai confini della legge o per la richiesta insistente di un contributo in soldi alla loro spavalda simpatia. Anche gli sciuscià si affaccendavano in maniera rumorosa e allegra in cerca di occasioni per guadagnare un soldo, specializzandosi nel pulire le scarpe ai soldati alleati presenti a Napoli dopo la liberazione della città (sciuscià deriva infatti da shoe shine, lustrascarpe in inglese).

Oggi Napoli non è più la città degli scugnizzi e degli sciuscià. I minori che vivono al limite della legge o che delinquono per necessità, hanno lasciato il campo ai guaglioni di camorra. E' in questa contiguità della delinquenza dei picciotti (cioè dei ragazzi che fanno ancora il piccio) con la criminalità camorristica che si caratterizza da alcuni decenni la particolarità e l'esplosività della questione minorile a Napoli e nel suo hinterland.

Perché a Napoli è tremendamente difficile separare la questione minorile dalla più ampia questione camorristica. La questione minorile non è un problema di età, ma di graduazione della medesima questione criminale, di cui quella minorile è solo una tappa. Nell'area metropolitana partenopea, questione urbana, questione minorile e questione criminale si presentano in un intreccio inestricabile, come una spia violenta e tragica di una gigantesca e irrisolta crisi sociale.

Se in altre grandi città italiane ed europee la questione minorile è anche espressione di una difficile integrazione di varie ondate migratorie, interne all'Italia ed esterne, a Napoli essa è una questione indigena, interna, locale. Gli stranieri e gli immigrati non c'entrano niente. La questione minorile è quasi esclusivamente questione napoletana e di napoletani. Quindi non un collasso dovuto ad apporti esterni, ma collasso della tenuta civile interno alla città, una specie di redde rationem della città con la sua storia. E se nelle altre città, le forme violente si esercitano anche da parte di ragazzi provenienti da famiglie borghesi, a Napoli invece c'è quasi il monopolio di atti violenti da parte di ragazzi di famiglie sottoproletarie. I luoghi del degrado urbano (e del malessere sociale) e la questione minorile sembrano quasi coincidere.

Da decenni Napoli (assieme alla sua provincia) si segnala tra le città con il maggior numero di minori coinvolti in procedimenti per 416 bis. Purtroppo non esiste in città una separazione netta di spazi, di età, di attività, di ambienti sociali tra violenza minorile e criminalità camorristica. I minori sono l'esercito di riserva permanente a cui la criminalità maggiore attinge. In altre parti d'Italia i reati dei minori hanno a che fare soprattutto con il consumo e lo smercio della droga, a Napoli invece la maggior parte dei reati riguardano, oltre la droga, rapine, scippi, estorsioni, uso di armi, omicidi e tentati omicidi. E se in altre città d'Italia l'esperienza in istituti di pena minorili non si tramuta necessariamente in continuità delinquenziale al raggiungimento della maggiore età, a Napoli e provincia una gran parte dei ragazzi che hanno commesso reati passano poi nelle carceri per adulti. La recidiva si presenta come continuità tra la minore età e quella adulta e come continuità sociale tra le esperienze dei singoli e quelle delle loro famiglie. Infatti i dati che impressionano di più sono i seguenti: è considerevole il numero di minori in istituti di pena che non ha completato la scuola elementare, è altrettanto rilevante il numero dei provenienti da famiglie numerose (dai quattro figli in su), è altissimo il numero di chi ha un genitore, un fratello, un nonno o uno zio in carcere. I minorenni delinquenti sono in linea di massima figli, fratelli o nipoti di pregiudicati. Essi hanno cominciato prestissimo l'acculturazione illegale, per strada e in famiglia. In molti di essi l'analfabetismo di ritorno è elevatissimo. Si esprimono esclusivamente in dialetto, la lingua italiana la capiscono ma non la parlano. Insomma, la camorra non è altro che la sorella maggiore, comprensiva e attenta, dei minori delinquenti. A Napoli, nella terza città d'Italia, si può essere boss di camorra a 18 anni e a quell'età si ammazza e si viene ammazzati per strada, si partecipa a delitti efferati a 17 anni, a 15 anni si è già nel giro della droga e si è pronti per essere assoldati dai clan, a poco più di 11 anni si ha già come modello di vita il camorrista del quartiere. Si è dentro al mondo del crimine e nelle sue immediate vicinanze, o si aspira ad entrarci, nell'età in cui si è ancora ragazzini, adolescenti, dediti ancora al piccio o piccoli e numerosi come i moscerini.
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