«Io ultimo a vedere il boss Cutolo, ammise l’omicidio Salvia»

«Io ultimo a vedere il boss Cutolo, ammise l’omicidio Salvia»
di Antonio Mattone
Giovedì 18 Febbraio 2021, 23:37 - Ultimo agg. 19 Febbraio, 08:40
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Ho incontrato Raffaele Cutolo il 22 luglio 2019 nel supercarcere di Parma. Se si escludono i familiari, il legale e gli agenti penitenziari, sono stato l’ultima persona ad averlo visto, a incrociare il suo sguardo, a parlare con lui. Mi aspettavo di riconoscerlo seppure fosse invecchiato: avevo impresse nella mente le immagini che lo ritraevano nelle aule dei tribunali, che lasciavano trasparire la sua arroganza e la sua saccenteria. 

Tuttavia, con mia grande sorpresa, mi sono trovato di fronte un anziano smagrito, con le mani tremanti e deformate dall’artrite reumatoide, un po’ trasandato con la barba incolta e i capelli spettinati. Devo dire che se non avessi saputo chi fosse, non l’avrei riconosciuto.

 

Avevo chiesto di incontrarlo per raccogliere una sua testimonianza sul delitto di Giuseppe Salvia, il vicedirettore del carcere di Poggioreale, su cui stavo scrivendo un libro che ricostruisce la vicenda dell’omicidio e che uscirà a breve, in occasione del 40mo anniversario della sua morte. 

Per questo delitto Cutolo fu condannato all’ergastolo per esserne stato il mandante, anche se fino ad allora si era professato sempre innocente. 

Per parlare con me, il boss ha dovuto rinunciare ad un colloquio con i familiari.

Infatti i condannati al regime del 41 bis possono avere solo un incontro al mese, indipendentemente se si tratti di parenti o altre persone. E in ogni caso la conversazione avvenne attraverso un citofono, poiché una grande vetrata separa il detenuto dal visitatore.

Devo dire che più delle trasformazioni somatiche, mi sono chiesto se il “professore” avesse maturato ripensamenti rispetto alla sua condotta criminale. Oltre all’omicidio Salvia, ho approfondito altri delitti di cui si era macchiato, ed ero rimasto impressionato dall’efferatezza di atroci crimini, come quelli portati a termine nel carcere di Poggioreale la notte del terremoto del 1980, di cui sono entrato in possesso di una dettagliata relazione. 

Per prima cosa chiesi a Cutolo come stava e lui mi rispose perentorio: «Aspettiamo la morte». Iniziò a raccontarmi della sua condizione di sepolto vivo, che non poteva avere compagni di cella né di passeggio, e gli era persino negato l’ascolto delle canzoni di Sergio Bruni. «Sto sempre nella stanza, non esco neanche per l’ora d’aria», mi disse. Mi tornò alla mente un appunto ritrovato nella sua cella all’Asinara, dove emergeva in modo drammatico La grande solitudine del boss: «Asinara Natale 1982 giorno 31 l’ultimo dell’anno. Mi ritrovo in una cella nuda. Ho passato l’ultimo dell’anno con un panino e un bicchiere d’acqua».

Quel caldo giorno di luglio, ci volle poco per capire che il vecchio Cutolo manteneva sempre lo stesso piglio, e il suo modo di comunicare non era cambiato affatto. Le battute, il linguaggio allusivo fatto di mezze frasi che lasciavano supporre molto più di quanto in realtà potesse dire, le esagerazioni montate ad arte finalizzate ad impressionare l’interlocutore erano sempre le stesso copione. 

Così, dopo aver ammesso in un primo momento di aver fatto tanto male da meritare quella sorte, cambiò improvvisamente versione, affermando che stava subendo una grande ingiustizia. 

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Tuttavia credo fosse ben conscio del fatto che non sarebbe potuto mai uscire dal carcere, piuttosto avrebbe voluto un regime meno duro, dopo 54 anni passati in galera. Il suo cruccio più grande era che da lì a poco tempo non avrebbe potuto più abbracciare la figlia da vicino che stava per compiere 12 anni e, secondo il regolamento, doveva stare dall’altra parte del vetro come tutti gli altri visitatori. 

Quando seppe che ero volontario a Poggioreale Cutolo mi disse che la criminalità per i giovani era una strada sbagliata, che non portava a nulla: «Uno all’inizio ha l’impressione di avere tanti soldi ma poi finisce male, meglio andare a lavorare». E ancora: «la camorra non ha futuro, glielo dica a quei ragazzi». Ma quando gli chiesi se fosse pentito e se avrebbe rifatto le sue scelte criminali non prese le distanze e continuò ad essere ondivago. Alla fine, per la prima volta, ammise di essere stato lui l’artefice della morte di Salvia, dopo averlo negato sia nel processo sia al giornalista Joe Marrazzo nella famosa intervista all’interno della gabbia durante la pausa di un processo. Ho spesso ripensato a quell’incontro. Mi sono chiesto come un uomo potesse diventare così crudele e fare tanto male. Il male è davvero un mistero. Forse la fine di un boss come Cutolo può essere emblematica anche per i giovani criminali di oggi perchè la sua parabola discendente potrebbe sminuire quella carica attrattiva che ancora mantiene. Il colloquio con Cutolo durò soltanto un’ora. Molte altre cose avrei potuto e voluto chiedergli. Il vecchio boss mi salutò accennando a un sorriso e se ne tornò alla sua vita di ergastolano.  

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