I napoletani sospesi tra pregiudizi e stereotipi

di Adolfo Scotto di Luzio
Sabato 22 Settembre 2018, 08:00
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Mentre la cronaca enfatizza casi reali o presunti in cui il pregiudizio contro i napoletani continua a far sentire la sua voce, bisognerebbe chiedersi che cosa racconta di noi, di noi italiani voglio dire, l'uso degli stereotipi.

La diffusione del politicamente corretto in questi anni ha comportato una vera e propria sterilizzazione del linguaggio con la pretesa di imporre tutta una nuova etica del discorso petulante ed oppressiva. Nato nel quadro di società fortemente segnate da profonde fratture razziali, l'obbligo di emendare le parole di ogni anche inconsapevole carica offensiva è diventato ben presto uno strumento negoziale brandito da chi ha qualcosa da chiedere nella vasta arena pubblica. Non trovando più la via della politica, questi interessi si fanno largo invocando una qualche offesa ricevuta ed avanzando una pressante pretesa al riconoscimento. La conseguenza principale di questo nuovo modo di agire pubblicamente è la trasformazione dei gruppi sociali in comitati di vittime.

L'Italia è così diventata negli anni una vasta comunità del trauma, di parenti delle vittime, di intossicati dalle esalazioni di qualche discarica, di mamme terrorizzate dalle ciminiere di fabbriche siderurgiche, e così via. Non c'è più politica industriale che tenga, ragionamento geopolitico o lotta di classe. Ci sono solo poveri e indifesi cittadini di fronte ai quali si erge, oscuro e minaccioso, il Leviatano del potere. E così, anche i napoletani sono stati risucchiati da questo immenso aspirapolvere dell'opinione pubblica globale e neoliberale, che li ha inghiottiti «corti e neri» e li ha restituiti ad una nuova identità. I napoletani si pensano oggi come una comunità di coscienza, stretti tra loro da vincoli di affinità etica «in quanto napoletani», e come tali vogliono essere rispettati.

Per questo è tutto un pullulare di richieste di scuse, di atti riparatori, insomma di qualcosa che attesti e certifichi i torti subiti e dia soddisfazione agli offesi. Si montano targhe alle vittime dell' eccidio di Bronte, si danna la memoria di Nino Bixio, fino a gongolare quando si riconosce: «sì, voi non pagate i biglietti sugli autobus, ma i brianzoli, anche loro, te li raccomando».

Ed eccolo, il paradosso di questa nuova Italia permalosa e intrattabile. È il paradosso di una società che sembra contenta solo quando tutto ritorna alle vecchie caselle. Il napoletano è indolente e un po' ladro; quelli di Agrate, invece, pensano solo ai soldi. Avidi, non pagano le tasse. 

In forme inavvertite e culturalmente inconsapevoli, da noi il politicamente corretto si risolve nel ripristinare così le vecchie maschere della commedia dell'arte. Una commedia, però, non solo stracca ma dove tutti girano a vuoto.

Considerando il pregiudizio essenzialmente un residuo del passato, non solo gli si oppone una reazione scandalizzata e moralistica ma di fatto non si riesce a dare una spiegazione soddisfacente della sua permanenza, che non sia appunto quella di una presenza abusiva nel quadro di una modernità aperta e tollerante. Eppure, resta la domanda: perché abbiamo ancora bisogno dei napoletani o dei brianzoli? Perché ci sono ancora i terroni e perché basta guardare una delle tante commedie cinematografiche di questi ultimi anni per notare come, ancora e sempre, le donne del sud sono matronali e accoglienti, quelle del nord magre e inquiete? Perché, su di un piano più ampio, agli italiani viene riservata la stessa sorte di cui si lamentano i napoletani nei confronti dei loro connazionali del nord?

La verità è che lo stereotipo è una forma della conoscenza e obbedisce al bisogno che tutte le comunità umane avvertono di identificarsi e autodefinirsi. Lo stereotipo nasce dal contatto, dagli scambi e dal commercio tra gli uomini. Non è, come si dice di solito, espressione di chiusura. Semmai, del contrario. Nel nostro caso dice di una comunità, quella nazionale, che non avendo altro a disposizione si affida ad immagini certo logore ma che pure assolvono alla loro funzione di rendere comprensibili gli uni agli altri i rispettivi interlocutori per il tramite di un giudizio sull'identità. Il problema, allora, non è lo stereotipo ma l'urgenza che ha questo paese di una rappresentazione più ampia delle ragioni che ci tengono insieme, cancellate ormai del tutto le culture politiche repubblicane. Il contrario dell'identità non è l'apertura nei confronti dell'altro ma il fatto che il «diverso» si chiude sempre dentro un'identità più piccola. Il contrario dell'identità è la tribù.
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