Napoli, il retroscena choc del delitto al rione Villa: volevano uccidere anche il bambino

Napoli, il retroscena choc del delitto al rione Villa: volevano uccidere anche il bambino
di Leandro Del Gaudio
Domenica 5 Maggio 2019, 08:30 - Ultimo agg. 6 Maggio, 06:34
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Si è abbassato, si è curvato, si è nascosto ai piedi del sedile passeggero. E ha stretto i denti, cercando una forza impossibile anche da immaginare per un bambino di soli quattro anni. Una forza che gli ha consentito di sopravvivere ai colpi diretti anche nei suoi confronti - undici per l'esattezza - esplosi anche contro di lui, parliamo del piccolo eroe, del bambino con lo zainetto da spiderman. C'è anche questo nella storia dell'omicidio al rione Villa dello scorso novembre, quello alle nove del mattina, in cui viene ucciso Luigi Mignano e ferito a una gamba il figlio Pasquale. Oggi, grazie al fermo di sette indagati, tutti ritenuti legati alla camorra del clan D'Amico, emerge un particolare da brividi: i sette indagati rispondono anche del tentato omicidio dello scolaretto, del bimbo dell'asilo, secondo quanto emerge dalla ricostruzione balistica ma anche da una intercettazione in ospedale, dove il padre del bambino racconta alla moglie qualcosa in più di una impressione. Dice Pasquale Mignano: «Sì, hanno sparato anche nella macchina, ero convinto che avessero colpito anche lui... papà ha avuto il primo colpo al petto, non immaginavo mai che quello poi sparava ad altezza d'uomo». Inchiesta condotta dai pm Antonella Fratello e Simona Rossi, sotto il coordinamento del procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli, finiscono in cella il presunto boss Umberto D'Amico, noto tra i suoi simili come o lione, Umberto Luongo, Gennaro Improta, Salvatore Autiero, Giovanni Musella (conosciuto come Giovanni «quello con gli occhiali»), Giovanni Borrelli (alias Giovanni «e quagliarella»), e Ciro Rosario Terracciano, a sua volta ritenuto l'uomo che ha fatto fuoco ed ha materialmente ucciso Luigi Mignano.
 
Un delitto ricostruito grazie al lavoro dei carabinieri del comando provinciale di Napoli guidati dal comandante Ubaldo Del Monaco, da Alfonso Pannone e Adolfo Angelosanto (che hanno eseguito i fermi), e agli uomini della Mobile (che hanno lavorato sulle immagini agli atti), che spinge la Procura a ipotizzare anche l'accusa di tentato omicidio nei confronti di Pasquale Mignano (ferito a una gamba) e del bambino di soli tre anni. Scrivono gli inquirenti: «Dopo aver attinto al petto Luigi Mignano, nonostante fosse stato raggiunto l'obiettivo, i killer hanno continuato a sparare ulteriori 11 colpi, tutti ad altezza uomo, alcuni dei quali hanno attinto la Renault Clio di Pasquale Mignano, infrangendo il lunotto posteriore. In auto si trovava il piccolo, nascosto sotto il sedile passeggero davanti». E ancora: «Dai commenti dei familiari, si comprende che gli esecutori materiali avessero intenzione di colpire tutti i presenti».

E andiamoli a vedere immagini e dialoghi. È un lavoro di squadra in casa di Umberto D'Amico, si studiano le mosse, per andare a colpo sicuro, lì nel rione Villa, fortino dei Rinaldi, avversari storici dei D'Amico-Mazzarella. Dunque: viene parcheggiato, con 24 ore di anticipo uno scooter, anzi, lo scooter che verrà usato dai killer per fiondarsi contro Luigi Mignano. Sembra un'azione delle br, che va a buon fine, anche perché nessuno immaginava un delitto alle 8.45. Nove aprile, dunque, omicidio, ferimento, duplice tentato omicidio. Le immagini svelano particolari su chi si occupa di bruciare lo scooter (nella «lontana» San Giorgio a Cremano) e di portare gli esecutori materiali a Formia.

Ma la prima traccia alle indagini la offre - inconsapevolmente - una parente della vittima, che urla la sua rabbia: «Ci dobbiamo mettere le bombe addosso e dobbiamo andare al vicariello». Parola chiave, il «vicariello», che sta ad intendere il fortino dei D'Amico. È così che si concentrano le indagini sul gruppo di «'o pirata», anche grazie a particolari apparentemente spuri che emergono dalle intercettazioni. Tipo: Umberto D'Amico aspetta un figlio, mentre Salvatore Autiero deve sposarsi, insomma particolari «in ambientale» che aiutano gli inquirenti a dare un nome alle voci via via captate. Come quella di Umberto Luongo, presunto braccio destro del boss, che detta la strategia: niente reati, rimanere sotto traccia per almeno un mese, per poi sferrare nuovi colpi contro gli avversari nel bronx di Napoli est. «Sì, vabbuò, a Pasqua deve entrare una cosa di soldi, e poi una volta passato questo mese cominciamo a dettare legge». E poi, a scanso di equivoci, l'indagato numero due declina le proprie generalità al cospetto dei suoi: «...io sono il Luongo Umberto di una volta...».

Insomma, uccidere un uomo, ferirne il figlio, terrorizzare un bambino di tre anni non è sufficiente, secondo la ricostruzione emersa dalle intercettazioni ambientali. «Non è finita qui - insiste Luongo - ora devo attaccare quello di Pazzigno». Richiama i suoi alla compattezza, li ammonisce a parlare a telefono, ad essere uniti: «Noi ci muoviamo con il cervello, siamo compatti tutti quanti noi, siamo padre-figlio e spirito santo, se mi arrestano, arrestano anche te». Poi la conversazione cade sul clima che si respira nella zona del rione Villa, all'indomani del delitto. C'è paura, nessuno esce in strada, nonostante il dispiegamento di mezzi messi in campo dallo Stato. Non sfugge a Luongo e D'Amico una circostanza, quella legata alla decisione di un loro parente di non aprire il bar di cui è proprietario, evidentemente per paura di ritorsioni: «Fa capire che siamo stati noi», insiste Luongo, quasi a chiedere al presunto boss un intervento sul campo. Due giorni dopo, siamo all'undici aprile, il clima di coprifuoco resta palpabile, come appare evidente dalla conversazione di Umberto D'Amico con il cugino Salvatore (figlio di Gennaro): «Non ci sta nessuno in mezzo alla strada, nemmeno vicino al bar c'era nessuno... non ho acchiappato nessun amico mio».

Eppure assicura il boss - nessuno ha motivo di temere, perché in fondo «noi non abbiamo toccato un bravo ragazzo», quindi se arriva una ritorsione «devono toccare uno di noi, mica può pigliare un bravo ragazzo». Temono arresti, temono di essere riconosciuti, ma solo fino a un certo punto, perché non è la prima volta che si trovano alle prese con una questione del genere. A voce alta, si fa così riferimenti a «precedenti simili agguati mortali», mai culminati in arresti e condanne. Uno spot sulla malagiustizia o sul senso di impunità che si respira nella zona del «vicariello», come insiste il presunto boss: «Niente di meno che se ci giriamo dietro non sappiamo quanti ce ne stanno di morti e non ne abbiamo mai pagato uno». Parole che ora attendono la valutazione di un gip per la convalida del fermo, in uno scenario segnato dall'omicidio a sangue freddo del parente dei Rinaldi, ma anche dal tentato omicidio del figlio e finanche di quel piccolo eroe di quattro anni che ha avuto la forza di nascondersi sotto il sediolino.
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