Ambulanza sequestrata dal branco, parla l'autista: «Io, ostaggio di cavernicoli senza cultura»

Ambulanza sequestrata dal branco, parla l'autista: «Io, ostaggio di cavernicoli senza cultura»
di Ettore Mautone
Martedì 29 Maggio 2018, 11:11 - Ultimo agg. 13:41
5 Minuti di Lettura

P. P., 58 anni, da circa 20 al lavoro come autista sulle autoambulanze del 118 in città. Un lavoro usurante, soprattutto per i rischi che si corrono a Napoli. Come la sera di domenica, al Vecchio Pellegrini, quando dopo aver condotto in ospedale un paziente oncologico, colpito da un infarto, è stato sequestrato, insieme all'ambulanza (senza barella, né medico né infermiere a bordo) da un nugolo di persone esagitate che sotto minaccia lo hanno condotto sul luogo di un incidente mortale dove erano già presenti altre due ambulanze. «Cavernicoli scesi dai vicini Quartieri Spagnoli - dice Pietro (il nome è di fantasia, ndr) - privi di cultura, senza scolarità, che non hanno rispetto per nulla e che non capiscono come funziona il servizio dei soccorsi, né intendono rispettarne le regole. Gente che non legge i giornali e nemmeno le cronache, i loro unici interessi sono legati al calcio, alle vicende di Sarri e del Napoli. Forse solo allo stadio si potrebbe cercare di scalfire questo muro di incultura e indifferenza, magari veicolando corrette informazioni arruolando come testimonial uno dei loro beniamini, come Insigne. Simboli positivi di un riscatto sociale che, per l'impatto emotivo che hanno su questa fascia di popolazione, potrebbero instradarne anche i comportamenti e stigmatizzarne le devianze».
 


Cosa è successo l'altra sera al Pellegrini?
«Nel corso della mia carriera ne ho viste di cotte e di crude ma mai mi era capitata una cosa simile. Due minuti dopo aver portato un paziente infartuato in pronto soccorso mentre chiudevo il portellone dell'ambulanza sono arrivati una cinquantina di motorini con una moltitudine di persone quasi tutte giovani. Mi hanno circondato e pretendevano che andassi a prendere un loro amico vittima di un incidente».

E lei cosa ha fatto?
«Ho detto loro che ero senza barella, senza medico e senza infermiere e dunque non poteva fare nulla».

E loro?
«Mi hanno detto che avrebbero caricato il ferito sistemandolo a terra. Ma quando ho spiegato che un traumatizzato va preso con cautela e montato su una barella spinata per evitare che possa morire per un cattivo trasporto mi hanno trascinato a spintoni al piano superiore per recuperare la barella. Volevano mettere il paziente infartuato a terra».
 
E poi come è andata?
«Un infermiere del pronto soccorso accortosi del parapiglia ha liberato un letto dove era sistemata una persona non tanto grave ed è uscito in corsia con il letto. Ma non ci hanno dato nemmeno il tempo di fare il passaggio del'infartuato dall'autolettiga che si sono presi il letto di degenza e se lo sono trascinato per le scale. Poi hanno scaraventato il letto nell'ambulanza che per questo nemmeno si chiudeva e lo hanno capovolto danneggiando il mezzo. Uno si è seduto accanto a me e altri dietro. Un letto portato inutilmente sul luogo dell'incidente dove c'erano già altre due ambulanze e dopo abbandonato chissà dove».

L'hanno minacciata con le armi?
«No, non avevano armi, ma mi hanno pesantemente e ripetutamente minacciato. Erano in tanti, esagitati e senza controllo. Impossibile discutere i loro ordini».

Ha avuto paura?
«Certo che sì. Ho 58 anni e non vedo l'ora di andare in pensione. Ma con le ultime leggi non sarà possibile prima di 10 anni. È una vita che faccio questo mestiere in queste condizioni e non ne posso più».

Ha subìto altre aggressioni?
«Sì, diverse negli ultimi anni. Ormai molti miei colleghi chiedono il trasferimento. Qui resta solo chi è anziano o non ha altre possibilità. E accade anche tra i medici e gli infermieri».

Quale ricorda oltre quest'ultima?
«Una accaduta tre anni fa al Loreto Mare. Fui preso a pugni e schiaffi. Una violenza inaudita e senza alcun motivo. Il mio aggressore è stato condannato a otto mesi di carcere».

Come mai in molti casi non seguono le querele alle aggressioni?
«Perché molti hanno paura di ritorsioni. Questa gente non ha nulla da perdere. Ma non conoscono neppure le norme di convivenza. Il rispetto per la sofferenza altrui. Eppure siamo un servizio di prima linea, nel senso che di noi possono aver bisogno tutti. Dovremmo essere l'élite della sanità e siamo invece una trincea abbandonata a se stessa».

Anche questa volta ha denunciato?
«Certo, ho denunciato i fatti. Ma non sono in grado di riconoscere chi mi ha aggredito. Erano in tanti, con il casco. Rivedo la scena come in un film ma non riesco a mettere a fuoco volti di persone che non avevo mai visto prima in faccia».

Come si viene a capo di queste situazioni?
«Non lo so, ormai a Napoli è una guerriglia. Il nostro è un lavoro ad altissimo rischio».

Che ne pensa dell'iniziativa della Asl di sistemare telecamere a bordo?
«Possono funzionare, in alcuni casi dare un aiuto alle indagini. Ma non credo che serviranno a mitigare il rischio per noi. Servirebbe una rivoluzione culturale».

Cosa intende?
«Se si scrive sul giornale quello che avviene queste persone, che non esito a definire cavernicoli, non leggono la cronaca. I media sono strumenti per le persone perbene. Ci vorrebbe qualcuno che loro ascoltano».

Chi potrebbe essere?
«Penso ai loro idoli e beniamini, i giocatori del Napoli.
Forse solo allo stadio o durante un partita di calcio in tv, un messaggio potrebbe raggiungere questa gioventù senza cultura che proprio per questo è senza regole e anche senza futuro che non sia la criminalità».

© RIPRODUZIONE RISERVATA