Dai giubbotti falsi alle case di Parigi, dopo l'arresto è caccia al tesoro del clan Di Lauro

Dai giubbotti falsi alle case di Parigi, dopo l'arresto è caccia al tesoro del clan Di Lauro
di Daniela De Crescenzo
Lunedì 4 Marzo 2019, 11:00
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Caccia aperta al tesoro dei Di Lauro. Dopo l'arresto di Marco, l'obiettivo degli inquirenti sono le centinaia di milioni accumulate dal clan che ha sempre giocato su due tavoli, quello della droga e quello dell'economia, almeno apparentemente legale. Il doppio binario è stato e rimane il marchio di fabbrica della Di Lauro Company, un'organizzazione criminale, ma non solo. E ora che le piazze di Scampia sono state chiuse, che spacciare nel Rione dei Fiori, la roccaforte del clan, è diventato impossibile per i controlli costanti e che le entrate della coca e dell'eroina si sono consistentemente ridotte, gli inquirenti sono alla ricerca delle montagne di soldi investiti in edilizia, supermercati, ristoranti e prodotti contraffatti.

Impresa non facile visto che Vincenzo, la mente finanziaria del clan, ha già fatto sapere che i soldi che ha fatto girare per comprare un bar e un ristorante a poca distanza dalla casa di famiglia in via Cupa dell'Arco, e un supermercato nel centro della città, non provengono dagli incassi della polvere bianca, ma dal risarcimento ottenuto dall'assicurazione dopo la morte del fratello Domenico, deceduto in un incidente stradale poco prima dell'inizio della faida del 2004. Più di un milione di euro che si vanno ad aggiungere alle centinaia di migliaia di euro intascati da Cosimo, il primo dei nove Di Lauro boys, incappato in un altro incidente di moto che gli danneggiò il ginocchio.
 
Ma la capacità di navigare in mondi diversi è sempre stata la specialità del clan. Un marchio di fabbrica fin da quando Paolo, il fondatore dell'organizzazione, creò una rete di magliari diffusa in tutto il mondo, come ricostruito nel 2003 da una fondamentale inchiesta del pm Filippo Beatrice, recentemente scomparso. Una struttura forte, basata su una rete capillare. Già alla fine degli anni Settanta il matrimonio tra Paolo Di Lauro e Luisa D'Avanzo rinsaldò un sodalizio che né le faide né gli arresti né i pentimenti hanno azzerato. Luisa, silenziosa e discreta, ma donna di ferro, è infatti la sorella di Enrico D'Avanzo, amico, socio d'affari e di crimine di quello che Luigi Giuliano aveva soprannominato Ciruzzo il milionario quando si era presentato al tavolo da gioco con un mucchio di fiches.

La storia di Paolo Di Lauro sembra tratta da un romanzo dell'Ottocento. Figlio di madre nubile, il capoclan fu abbandonato alla nascita, poi riconosciuto dalla madre, e infine adottato dalla famiglia Di Lauro. L'incontro con Aniello La Monica, in quegli anni feroce e incontrastato capo della malavita di Secondigliano, ne segnò poi il destino: per la cosca lavorava da ragioniere tenendo la contabilità e consegnando le mesate agli affiliati. Ma intanto gestiva anche un giro di magliari che vendeva soprattutto merce contraffatta: giubbini di finta pelle, biancheria, ma anche finti trapani Bosch, borse, borsellini, occhiali, maglie e magliette spesso importate dalla Cina. Fu la zona grigia dell'economia, la contraffazione, appunto, ad aiutare quell'accumulo di capitale che permise poi a Ciruzzo di investire nella droga.

Nel 1982 il salto di qualità: il primo maggio La Monica fu investito con l'auto e poi ucciso a colpi di pistola; dietro l'agguato c'erano D'Avanzo e Di Lauro che da quel momento cominciarono un'inarrestabile ascesa criminale. Dopo il terremoto Ciruzzo colonizzò uno dei rioni appena costruiti dallo Stato con i fondi della ricostruzione, il rione dei Fiori, mentre la famiglia del boss governava dal palazzo di via Cupa dell'Arco dove vivevano Luisa e i suoi dieci figli maschi: Cosimo, Vincenzo, Ciro, Marco, Nunzio, Salvatore, Domenico, Antonio, Raffaele e Giuseppe. Proprietario di un'azienda di pelletteria ancora presente sulle Pagine gialle, la Vailant, Di Lauro rimase praticamente sconosciuto alle cronache criminali fino ai primi anni del 2000, pur avendo comprato, spiegano i collaboratori di giustizia, già una bella fetta del comune confinante, Melito. La sua unica fotografia, fino a quel momento, era stata scattata quando era stato convocato dall'allora pm Luigi Bobbio: il figlio Nunzio aveva organizzato un commando per picchiare un docente della Pascoli II che aveva osato rimproverarlo. Il prof morì poco dopo ma Ciruzzo si presentò dal magistrato, chiese scusa, giurò che avrebbe punito il ragazzo e tornò a casa.

Intanto con Raffaele Amato aveva fondato la più fruttuosa delle società: quella Coca Spa capace di importare ogni mese tonnellate e tonnellate di cocaina dal Centro America trasformando Scampia nella più grande piazza di spaccio a cielo aperto d'Europa e incassando tra ingrosso e dettaglio fino a 300 milioni al mese. Il resto è storia nota. Gli affari andarono a gonfie vele fino al 2002 quando Di Lauro, raggiunto da un mandato di cattura, fu costretto a cedere a Cosimo la guida del clan. Il ragazzo volle mettere a busta paga i soci del padre che preferirono, invece, dare battaglia, anche perché grazie al broker della cocaina, Raffaele Imperiale, avevano costruito un proprio canale per comprare la droga. E fu la prima faida di Scampia. Negli anni successivi l'arresto del capoclan, del primogenito e a seguire quello di Vincenzo e la latitanza di Marco indebolirono il core business della Di Lauro Spa, la droga. Ma le case, e soprattutto i negozi sparsi in tutto il mondo (un pentito, Gaetano Guida parlò già nel 1998 di punti vendita pure a Parigi) sono ancora in ottima salute. Alla fine, magari, saranno i giubbini in finta pelle, e non la cocaina, ad arricchire il tesoro dei Di Lauro. Toccherà agli inquirenti scovarlo.
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