Napoli, l'assassino di Lello confessa: «Ho distrutto due vite, la sua e la mia»

Napoli, l'assassino di Lello confessa: «Ho distrutto due vite, la sua e la mia»
di Giuseppe Crimaldi
Lunedì 8 Ottobre 2018, 10:30 - Ultimo agg. 9 Ottobre, 06:28
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«Sì, sono stato io. Ho ucciso io Raffaele Perinelli. Ho distrutto due vite: la sua e la mia». In una saletta al primo piano della caserma dei carabinieri di Casoria Alfredo Galasso è seduto di fronte agli ufficiali dell'arma e al pubblico ministero Anna Frasca. Accanto a lui il difensore, l'avvocato Rocco Maria Spina, che lo ha accompagnato a costituirsi dopo l'assurda follia commessa in via Janfolla.

Una confessione senza pentimento. Chi c'era, chi durante quell'ora e mezza ha assistito ad una confessione che è prematuro definire «piena» per i motivi che vedremo a breve, di una cosa è rimasto colpito: Galasso è apparso impenetrabile, senza dare la minima impressione di un cedimento emotivo. Impenetrabile, lo sguardo fisso nel vuoto. Che cosa gli frullava nella testa è difficile dirlo: fatto sta che quell'atteggiamento appare inconciliabile con la consapevolezza di chi sta ammettendo una gravissima responsabilità che potrebbe costargli trent'anni di vita dietro le sbarre. Nessun segno di resipiscenza, dunque. E non una sola parola di pentimento, nemmeno un pensiero per la povera vittima uccisa con un colpo di coltello sferrato al cuore.
 


E sì che adesso di tempo per riflettere sul disastro che ha realizzato Galasso ne avrà, in carcere. Il sostituto procuratore gli contesta l'accusa di omicidio volontario aggravato dai futili motivi e dalla premeditazione. Ecco, fermiamoci su questo secondo aspetto. Per potersi configurare la premeditazione giuridicamente sono necessari due elementi: un elemento cronologico, consistente in un apprezzabile intervallo di tempo tra il progetto e l'attuazione del proposito criminoso, sufficiente a far desistere dal proposito criminoso un uomo di media moralità; e poi un elemento ideologico, che si manifesta nel perdurare, nell'arco di tempo che termina con l'azione criminosa.
 
Come sia potuto giungere a tanto, e che cosa abbia fatto lievitare i propositi violenti di Alfredo Galasso resta ancora un mistero. Un fatto appare chiaro: questo 31enne che aveva chiuso da tempo i suoi conti con la legge deve aver sedimentato un carico di rabbia talmente imponente da decidersi ad uscire di casa con il coltello in tasca. «Per paura», racconterà durante l'interrogatorio. Eppure tutti conoscevano Raffaele Perinelli, la vittima, per ciò che era realmente: un ragazzo perbene, buono, per nulla aggressivo.

E a poco aiuta scrutare il passato del reo confesso. Chi lo ha conosciuto da vicino sa che Galasso non si era mai legato a personaggi riconducibili alla camorra, e tanto meno al clan Lo Russo. Qualcuno lo ha descritto piuttosto come un bullo di periferia, una «testa calda» con una qualche inclinazione alla violenza, è vero; ma - a dirla tutta - in una zona ad altissima densità criminale di un quartiere difficile come Miano, nel quale si campa spacciando droga, facendo furti d'auto, rapine o estorsioni, a ben guardare lo spessore «delinquenziale» di quest'uomo appare di bassissimo livello.

È vero, aveva dei precedenti. Nel 2004 venne anche arrestato con l'accusa di rapina impropria; poi, un paio d'anni fa, si era andato a cercare altre rogne: ed era stato denunciato in due diversi frangenti, per rissa e per furto. Ma null'altro. Pareva aver messo la testa a posto, da due anni. Viveva solo con la madre, non era sposato, e cercava di sbarcare il lunario facendo l'ambulante, in giro per mercati.

La conferma arriva dalle indagini-lampo svolte dai carabinieri del comando provinciale di Napoli, due le compagnie che si sono messe subito al lavoro dopo la morte di Perinelli: quella del Vomero, guidata dal maggiore Luca Mercadante, e quella della Stella, diretta dal maggiore Francesco Cinnirella.

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