Da Scampia a Ponticelli, storie di bambini tristi: «Noi, in periferia senza scuola: ​non abbiamo mai visto il mare»

Da Scampia a Ponticelli, storie di bambini tristi: «Noi, in periferia senza scuola: non abbiamo mai visto il mare»
di Daniela De Crescenzo
Venerdì 17 Novembre 2017, 11:10
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«Ma veramente nel mare stanno di casa tutti questi cosi?»: Maria ha dieci anni, non è mai uscita dal suo quartiere, Scampia, non ha mai visto il Mediterraneo, e per lei pesci, cozze, cavallucci marini e tutto quello che l'insegnante ha disegnato sulla rete, non hanno nome. Sono tutti cosi. A casa sua chiamano coso il divano, la televisione, il bagno, e tutti gli oggetti che di volta in volta si limitano a indicare. In famiglia si parla poco, pochissimo.

Francesco abita a Ponticelli e racconta la giornata più bella della sua vita, quando con gli amici è andato a Mar Gellina. Scritto proprio così «Mar Gellina». Non ha idea che Mergellina sia il nome di una strada.

La mamma di Mariarca che vive a Piscinola confonde il consiglio dei docenti con quello degli innocenti, mentre il custode di una scuola vicina è sicuro che Aristide sia il nome della fetta di maiale che viene servita ai bambini dalla ditta di refezione. L'arista non sa assolutamente cosa sia.

E allora, come credete che se la siano cavati nelle prove di comprensione del testo Maria, Francesco e Mariarca? Loro che conoscono poco più della via dove abitano, loro che solo per un miracolo restano ancora nei banchi, loro che hanno genitori che della lingua italiana sono totalmente ignari, loro sono i peggiori, quelli delle zone segnate in rosso sulla cartina dell'istituto Invalsi. Per conoscerli bisogna rivolgersi a presidi e insegnanti che ogni giorno combattono per incatenarli nei banchi delle scalcinate scuole delle nostre periferie. Per poche ore, per carità, che il tempo pieno bisogna chiederlo e mamma e papà non hanno idea di che cosa si tratti, figuriamoci se possono azzardarsi a pretendere più istruzione per i propri figli.
 
«Io insegno alla Virgilio IV, la scuola delle Vele - spiega Elvira Quagliarella - e moltissimi miei alunni non sono mai usciti da Scampia, quando parlano del centro storico o del Vomero o dell'Arenella usano il termine «Giù a Napoli»: non sono consapevoli di vivere nella stessa città di chi frequenta gli altri quartieri. Spesso si sposano anche tra di loro e questo sta creando le stesse difficoltà genetiche che si riscontrano nei piccoli Paesi». I ragazzi di Scampia, dunque, abitano in un pianeta isolato, e utilizzano sistemi di comunicazione propri. «Nel rione parlano tutti la stessa povera lingua e noi non riusciamo a insegnarne una diversa», conclude la prof.

Per chi è nato a Scampia, o a Ponticelli, o a San Giovanni, frequentare la scuola significa trovarsi in un universo dove bisogna parlare, e scrivere, e far di conto, utilizzando un idioma straniero. Un'impresa praticamente impossibile. Anche perché spesso mancano le motivazioni. «La lingua serve per comunicare - spiega Maria Franco che insegna all'istituto penale di Nisida dove arrivano spesso i ragazzi che la scuola perde lungo la strada - Tutti i nostri allievi, però, parlano lo stesso linguaggio fatto di dialetto, slang giovanile e qualche parola d'italiano imparata dalla tv. Spesso anche gli immigrati si esprimono nello stesso modo perché frequentano le stesse persone. Per imparare una lingua diversa dovrebbero essere spinti a comunicare con il mondo». Invece, restano chiusi nei ghetti.

In un universo che corre, in un mercato del lavoro dove chi non conosce almeno l'inglese una lingua straniera è considerato praticamente analfabeta, quasi la metà dei figli di Napoli non parla l'italiano e non lo capisce. I voti sono spesso peggiori di quelli ottenuti dagli immigrati che frequentano le scuole del Nord: in quel caso la voglia di integrarsi funge da volano nel mondo del sapere. I ragazzi dei Bronx di casa nostra hanno rinunciato da tempo a far parte di una comunità di cittadini: al massimo puntano sulla rivalsa. E, in molti casi, non hanno nemmeno gli strumenti per imparare: vivono in un universo caotico dove si confondono persino il giorno e la notte. Capita a molti prof di scoprire che i ragazzini non arrivano in classe perché le madri, spesso giovanissime e magari sposate a un detenuto, passano la mattinata a dormire. E, infatti, una delle difficoltà incontrate a Nisida è proprio quella di creare un collegamento tra la gravità del reato e la lunghezza della pena: per i giovani detenuti 15 mesi o 15 anni sono praticamente la stessa cosa. Intanto molti di quelli che girano con il Rolex al polso non sono in grado di decifrare l'ora. Come hanno vissuto nelle classi «di fuori» i ragazzi lo hanno raccontato molte volte sul giornalino dell'istituto o nei libri pubblicati con un gruppo di scrittori. «La scuola non mi è mai piaciuta, però l'arte e tutto ciò che la riguardava, l'avevo sempre apprezzata, infatti alle medie avevo voti bassissimi in quasi tutte le materie, quasi perché in educazione artistica avevo sempre 8, 9 oppure un bel 10. Io all'epoca facevo parte del gruppo di bulletti che comandava la scuola, facevo sempre chiasso in aula, quando c'ero però, perché la maggior parte delle ore di lezione, le passavo tra i corridoi... Passano così 4 anni di scuola media ed io vengo promosso, solo perché i professori avevano deciso di togliermi dalle scatole, una volta e per tutte...», ha scritto Ciro. Un racconto che appartiene a molti.

Ed è anche questa la realtà mostrata da Save the Children nel proporre le tabelle sui risultati delle prove Invalsi. Non bastano certo le buone prove fornite dalle isole felici dell'Avvocata (probabilmente dovute a un paio di scuole frequentate dalla borghesia del centro storico), di Chiaia e di Posillipo per cancellare il disastro. «Molti dei miei studenti - spiega la preside della Bonghi di Gianturco, Rossella De Feo - non conoscono nemmeno il nome delle strade, hanno pochissimi punti di riferimento. Perciò la cosa più importante è spingerli a comunicare con l'esterno. Noi ci proviamo attraverso la musica. Suonare al San Carlo, ad esempio, per molti è stato come intravedere per la prima volta un mondo diverso e molto più vasto». Per raggiungere la città e ascoltare i figli suonare i genitori hanno noleggiato un bus, anche se la scuola dista dal teatro solo 7 chilometri: uno spazio sufficiente a disegnare confini.

Per Marco Badolati, 22 anni, il viaggio della vita è stato quello che lo ha portato all'associazione Cristallini che offre il doposcuola ai ragazzini della Sanità. Lui ha frequentato le scuole del rione ed è riuscito a diplomarsi all'Itis, anche grazie all'aiuto ricevuto a suo tempo dalla stessa associazione dove adesso presta servizio da volontario: «Io ai Cristallini ho appreso un metodo di studio. Secondo me per imparare devi essere spronato da qualcosa. A volte, invece, gli stessi professori sono annoiati da quello che insegnano. Le difficoltà legate all'uso dell'italiano contano, ma per superarle è importante frequentare gruppi dove sia necessario parlarlo. A casa mia, ad esempio, si usava solo il dialetto, ma al doposcuola ero costretto a parlare in italiano e la stessa cosa succedeva con i docenti della Sanitansamble, l'orchestra in cui suono il violino. Se vado al Verdi di Milano, tanto per fare un esempio, e parlo il mio dialetto non mi capisce nessuno e allora devo imparare per forza la lingua degli altri».

Daniela Politi, una delle docenti della Ristori, la scuola di Forcella che partecipa al progetto di Save the Children «fuori classe» contro la dispersione racconta: «Noi ci confrontiamo con famiglie in crisi dal punto di vista sociale ed economico. È ovvio che i risultati siano peggiori di quelli ottenuti al Nord: al Sud si investe di meno, c'è meno tempo prolungato e si parte da situazioni più difficili».

Francesca Amirante insegna nella vicina Confalonieri, frequentata dai ragazzi della Paranza dei bambini a cominciare da quell'Emanuello Sibillo finito ammazzato, una scuola dove comunque i risultati della prova Invalsi sono risultati soddisfacenti e dove convivono senza difficoltà ragazzini provenienti da contesti molto differenti. Chiarisce la prof: «Purtroppo in molti istituti non si sorveglia lo svolgimento della prova e quindi i dati sono alterati. Il problema di fondo è che i ragazzi non riescono a comprendere nemmeno le tracce perché non capiscono le singole parole e le frasi complesse: il gap linguistico è troppo forte tanto che anche in matematica a volte i ragazzi non capiscono cosa si chiede di fare. Noi abbiamo ottenuto buoni risultati a partire dallo studio delle competenze testate dall'Invalsi: quando i ragazzi capiscono le domande rispondono generalmente bene».
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