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All'ergastolo i boss Longobardi e Beneduce, Pozzuoli chiude la sua pagina nera

di Alessandro Napolitano
Articolo riservato agli abbonati
Giovedì 10 Gennaio 2019, 07:00
4 Minuti di Lettura

Carcere a vita. È una sentenza storica quella emessa ieri nei confronti di boss e gregari del clan Longobardi-Beneduce. Alla sbarra coloro che hanno dato il nome all'organizzazione che per anni ha gestito il malaffare nell'area flegrea: Gennaro Longobardi e Gaetano Beneduce. Con loro, condannati alla massima pena, i capi dell'ala quartese del clan, noti come quelli del Bivio: Salvatore Cerrone e Nicola Palumbo. Per tutti l'accusa è di aver trucidato gli ex boss di Pozzuoli Domenico Sebastiano e Raffaele Bellofiore. Un duplice omicidio rimasto senza colpevoli per quasi 22 anni, e che avrebbe cambiato per sempre la geografia criminale dei Campi Flegrei. Un massacro pianificato nei minimi dettagli, davanti agli occhi dei residenti del rione Toiano, da sempre roccaforte del clan. A dare un decisivo impulso alle indagini sono state le parole del super pentito Roberto Perrone, braccio destro di un altro potentissimo boss: Giuseppe Polverino, a capo dell'organizzazione che da Marano aveva allungato i propri tentacoli anche a Quarto.
 
Un intreccio tra diversi gruppi, con una vasta area da spartirsi. Questa l'istantanea scattata a metà negli anni 90, determinante per capire le ragioni dell'efferato duplice omicidio. E per chiarire meglio i contorni, bisogna ancora una volta tornare ad altri fatti di sangue. Come la carneficina compiuta nel 1989 all'interno del Circolo Canottieri di Napoli, conosciuta come strage del Molosiglio. A finire sotto i colpi dei sicari Giovanni Di Costanzo e i sui fedelissimi. Fino a quel giorno era stato lui a tenere in mano le redini della criminalità organizzata. Un potere prima condiviso e poi conteso a un altro boss, Rosario Ferro, fratellastro di Gaetano Beneduce. Anche lui finirà ammazzato, l'anno prima a Licola. Equilibri saltati ancora una volta, e sempre a colpi d'arma da fuoco. Omicidi eccellenti che avrebbero spianato la strada a Domenico Sebastiano e Raffaele Bellofiore. Un'eredità non facile per i due neo-boss, consapevoli che a volerli fuori dai giochi c'era un'intera squadra formata da camorristi più giovani, ma capaci di intessere rapporti anche con altre organizzazioni. Una modalità d'azione quasi rivoluzionaria per l'epoca, quando un clan difficilmente strizzava l'occhio ai potenziali rivali in affari. Abilissimi in questo si sarebbero dimostrati in particolare il «quartese» Salvatore Cerrone e Gennaro Longobardi. Il primo è conterraneo di Perrone e suo amico di infanzia; il secondo avrebbe dimostrato di saper stringere alleanze nonostante la detenzione, come quella con il clan Sarno di Ponticelli.

Ma per poter avere il campo libero, bisognava far fuori coloro che comandavano all'epoca, e occorreva farlo in maniera eclatante, dimostrando così ai loro «supporter» che era arrivata l'ora di un ricambio generazionale che avrebbe portato più soldi per gli affiliati. Scatta così la ribellione dei quattro capi carismatici, in quel momento messi in secondo piano. L'omicidio viene pianificato per il 19 giugno del 1997. Pochi giorni prima viene rubato un furgone a Gaeta, mezzo che una volta blindato avrebbe portato sul posto della strage il commando. Armati di fucili a pompa e protetti da giubbotti antiproiettile e passamontagna, il gruppo di fuoco avanza in via Cicerone. Poco prima uno «specchiettista» avrebbe dato il via libera, segnalando la presenza dei due boss scesi in strada dopo la calura di quel giovedì di inizio estate. In pochi istanti viene spazzata via la vecchia nomenklatura, con decine di proiettili di grosso calibro che centrano i bersagli senza lasciare loro alcuno scampo. Ad essere colpito di striscio anche un ragazzino che si trovava in strada. Si apre così una nuova stagione, con Longobardi e Beneduce alleati, anche se per poco. Nonostante gli attriti interni, il nuovo gruppo avrebbe imposto il proprio volere per oltre un decennio, convinto dell'impunità perpetua per quel duplice omicidio. Fino a ieri, quando viene pronunciata una sentenza senza precedenti per la mala puteolana.

Intanto, dal Comune - costituitosi parte civile e cui è stato riconosciuto un indennizzo di 20mila euro - parla il sindaco Vincenzo Figliolia: «È una sentenza esemplare, che viene emessa nei confronti di esponenti malavitosi protagonisti di pagine buie della storia di Pozzuoli. Mi complimento con gli inquirenti per l'ottimo lavoro svolto, i cui esiti sono stati consacrati nella sentenza emessa dal Giudice. Opera di sradicamento del malaffare che sarà sempre sostenuta con vigore anche dal Comune, che, come per tutti i processi di camorra, si era costituito parte civile nel processo affinché fosse chiara e netta la posizione dalla città e dei suoi abitanti rispetto a fenomeni così riprovevoli e odiosi».

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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