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Il tesoro del boss Di Lauro: indagini sull'ex senatore di Forza Italia

di Leandro Del Gaudio
Articolo riservato agli abbonati
Venerdì 7 Settembre 2018, 07:00
3 Minuti di Lettura

Camorra, clan e politica, la Procura non sfonda. Almeno per il momento, non passa la linea dell'accusa su una delle più complesse e voluminose inchieste condotte dalla dda di Napoli in materia elettorale. Pochi mesi fa infatti il gip Maria Gabriella Pepe ha rigettato una maxiretata a carico - tra gli altri - di politici, galoppini, imprenditori e prestanome, con un provvedimento che suona come una stroncatura. Ma il caso è ancora aperto e il match si è spostato dinanzi al Riesame, con un appello della Procura sia in materia di misure cautelari sia in tema di sequestri. Ma andiamo con ordine a riassumere un'inchiesta che risale ad almeno dieci anni fa, che punta i riflettori sul gruppo imprenditoriale della famiglia Marano, in particolare all'ex senatore di Forza Italia Stefano Marano. Due le accuse principali, su cui il gip non ha ritenuto possibile applicare arresti e sequestri: riciclaggio e voto di scambio, reati ricondotti a una presunta associazione per delinquere, con l'aggravante di aver favorito i clan di Secondigliano (dai Di Lauro ai Lo Russo).
 
Anni di indagine, migliaia di pagine agli atti, il gip dà una spallata all'inchiesta del secolo, puntando l'indice contro tempi lunghi e carenza di motivazioni: «A fronte di una informativa della pg depositata nel 2011, quindi a ridosso delle elezioni appena concluse, la richiesta di misura cautelare è stata depositata nell'ottobre del 2016, insieme ai risultati delle investigazioni scarne e basate esclusivamente sulle intercettazioni telefoniche delle utenze di alcuni indagati, sulle successive tornate elettorali del 2013 e del 2016, in un calderone di difficile lettura».

È un'inchiesta dai grandi numeri, quella che approderà al Riesame. In sintesi, il gip ha respinto 82 richieste di arresti (17 in cella, 65 ai domiciliari), in una vicenda che vede iscritti 162 nomi di indagati. Un provvedimento rispetto al quale la Dda ha provato a prendere le misure, formulando un appello per un gruppo di indagati decisamente più ristretto. In sintesi, la Procura (rappresentata dal pm Henry John Woodcock) si prepara a discutere la richiesta di arresti domiciliari a carico di Salvatore Marano, Stefano Marano, Assunta (Susy) Cutarelli, Giuseppe Petruccione, Giuseppe Riganato, Salvatore Vignati; mentre ha chiesto la meno afflittiva misura di obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria nei confronti di Raffaele Ambrosino (ex consigliere comunale di Forza Italia), Pietro Diodato (ex leader di An e di Fratelli d'Italia), Giuseppe Bernardi, Francesco Bianco, Giuseppina Cerbone, Carlo Di Dato, Giuseppe Errichelli, Giovanni Esposito, Ciro Esposito, Antonio Ferro, Michele Ferro, Nunzio Gragnaniello, Alfredo Marra, Luigi Marano (di Francesco), Luigi Marano (di Stefano), Francesco Mattiucci, Alberto Troia, Gennaro Tricolore, Pasquale Torre (di Giuseppe), Pasquale Torre (di Antonio).

Migliaia di pagine di intercettazioni, spuntano anche nomi eccellenti del mondo politico. Tra questi, spicca il nome di Luigi Cesaro, di Stanislao Lanzotta, del senatore Antonio Milo, di Severino Nappi, tutti riconducibili al partito di Forza Italia. Casi diversi in una inchiesta che abbraccia almeno quattro tornate elettorali, dal 2009 alle comunali del 2016. Stando alla ricostruzione dell'accusa, l'ex senatore forzista Salvatore Marano avrebbe messo in piedi una sorta di team politico, radicato a Secondigliano, che avrebbe avuto il potere di fare incetta di voti, di promettere assunzioni e soldi in cambio di pacchetti di voti. È in questo filone che la Procura ricostruisce la genesi imprenditoriale dei Marano, che avrebbero riciclato i proventi della droga delle piazze di spaccio controllate da Paolo Di Lauro. Agli atti le accuse di numerosi pentiti, ma anche informative di polizia giudiziaria, dalle quali emerge il ruolo del boss di Secondigliano come «socio occulto» degli imprenditori. C'è una informativa del 1995, che riporta l'annotazione della Questura di Udine, dalla quale emerge che Paolo Di Lauro (assiduo frequentatore del casinò locale) era solito guidare una Mercedes 600, intestata alla Tam leasing e in uso alla Edil Melito, a sua volta riconducibile alle società dei fratelli Marano. E sono ancora i pentiti a ricordare la frase di Marco Di Lauro, nel 2013 (nel pieno della sua latitanza che va avanti finora), a ricordare i debiti cumulati dai Marano nei confronti dello stesso clan. Poi c'è il filone politico, che punta i riflettori su un caf di Secondigliano (guidato da De Vicino), ma anche sul ruolo di politici locali del calibro di Maurizio Moschetti (presidente della Municipalità) e della stessa Cutarelli (a sua volta indicata come parente di un boss dei Lo Russo). Difesi dal penalista Raffaele Esposito, ora gli imprenditori di casa Marano attendono la valutazione del Riesame.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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