Condannata la babygang di Arturo, la madre del Nano urla: «Chiamo le guardie»

Condannata la babygang di Arturo, la madre del Nano urla: «Chiamo le guardie»
di Daniela De Crescenzo
Sabato 10 Novembre 2018, 08:00
3 Minuti di Lettura
«Sto esaurita, sto esaurita, se non ve ne andate chiamo le guardie»: Anna, la mamma del «Nano», il ragazzino condannato a 9 anni e tre mesi di carcere per aver tentato di rapinare e uccidere un coetaneo, Arturo, questa volta si rifiuta di parlare.

È davanti al basso dove vive con gli altri figli e il nuovo compagno a poca distanza dalla Caserma Garibaldi, dove si svolse l'aggressione. Dentro c'è il resto della famiglia, ma lei, dopo la tremenda mattinata che ha segnato il futuro del figlio, non ha né la forza, né la voglia di prendere la parola. Ce l'ha con il mondo intero, non si aspettava una condanna così severa per quel suo figlio che, insiste lei, «ha la sola colpa di essere bassino, proprio come l'aggressore di Arturo ripreso dalle telecamere di sicurezza».
 
Nei mesi scorsi Anna aveva sempre difeso a tutto campo il figlio che nega di aver preso parte al raid che ha rischiato di costare la vita ad Arturo.

«Con quella terribile storia mia figlio non c'entra niente», aveva sostenuto a dicembre appena il figlio era stato arrestato spiegando che il ragazzo frequentava il secondo anno di un istituto professionale e la sorella aveva già ottenuto il diploma. E punto per punto aveva ribattuto alle accuse fornendo anche un alibi al ragazzino: «Io posso testimoniare che al momento dell'aggressione lui era in casa con me, con mio cognato e suo figlio. L'ho già detto e sono pronta a confermarlo in tutte le sedi. Il ragazzo era con me e con altre due persone che possono confermare la sua presenza in casa. Per questo è assolutamente impossibile che c'entri con questa storia. È uscito solo dopo le 18 per andare nella palestra del quartiere: fa sport come è giusto alla sua età», aveva raccontato, ribadendo anche che il figlio non aveva mai posseduto un giubbotto come quello indossato da uno degli aggressori.

Poi aveva incontrato, davanti alle telecamere, Marisa Iavarone, la mamma di Arturo e a lei aveva ripetuto: «Non è stato mio figlio ad accoltellare il tuo».

Verità che evidentemente non hanno convinto i giudici, così come non sono sembrate attendibili le ricostruzioni fornite dai giovani finiti al centro delle indagini: infatti sono stati tutti condannati alle stessa pena mentre è stata rigettata la richiesta di messa alla prova: i tre non hanno confessato l'aggressione anche se alcuni di loro si sono riconosciuti nel gruppo ripreso poco prima a breve distanza dal luogo dell'aggressione. Quindi, evidentemente non sono pentiti.

Il «Nano», però, è l'unico che, almeno per adesso, resta in comunità: aveva mostrato segni di incompatibilità con il regime carcerario, gli altri continueranno a scontare la pena in un istituto per minorenni. Le famiglie, spiegano i legali Emireno Valteroni, Giulia Esposito e Dario Cuomo, hanno reagito in maniera composta alla sentenza, non hanno dato in escandescenze e si sono limitati a consolare i propri ragazzi.

Ma tutti e tre i minori al centro del processo vengono da situazioni difficili e dolorose. Il «Nano» ha i genitori separati e ha vissuto con il compagno della madre e i fratelli in un basso con poche entrate e molti problemi economici. Nella sua pagina Fb le foto in cui mostra con spavalderia una pistola giocattolo si alternano a quelle in cui si fa coccolare dalla madre che torna in moltissime immagini. Anche il secondo ragazzino ha i genitori separati che, a quanto pare, hanno vissuto in maniera tutt'altro che serena l'allontanamento. E alle tensioni in famiglia ha accennato anche ieri il giudice in aula. Il terzo imputato vive con gli zii, persone oneste che non gli hanno fatto mancare niente, ma è stato abbandonato dalla madre mentre il padre è deceduto in carcere. Tre storie, tre vite difficili. E solo per circostanze fortunate la storia che, secondo i magistrati, li ha visti protagonisti, non si è conclusa nel sangue.
© RIPRODUZIONE RISERVATA