Frullone, la sfida di Napoli ​agli arcaici tabù sulla follia

Sessant’anni fa posata la prima pietra del manicomio poi “laboratorio” di Sergio Piro

Il Frullone negli anni '70
Il Frullone negli anni '70
di Angelo Carotenuto
Domenica 2 Aprile 2023, 00:00 - Ultimo agg. 07:03
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Giuseppina sentiva qualcosa di cui all’inizio non conosceva il nome. Carmine aveva cinquant’anni, lei qualcuno di meno. Si erano conosciuti quando erano cadute le divisioni tra il reparto maschile e il reparto femminile, quando erano potuti uscire dalla segregazione delle loro stanze, dietro un cancello, dove una sigaretta - come canta Cristicchi - è tutto quello che ti resta. La malattia li aveva fatti incontrare. Una diagnosi di schizofrenia. Il Frullone le insegnò a dare un nome a quella cosa che arrivò e lei non sapeva spiegare, sapeva che era bella, era bella e basta. Giuseppina si era innamorata, una rivoluzione, mentre la città fuori, usava quel nome - ‘o Frullone - per dire di un altrove, e ne rideva, e ci giocava, e lo impugnava come una sintesi, la sintesi di un mondo respinto ai margini e neppure ben conosciuto, il mondo dei matti buono per il copione di una farsa. 

Ma l’arte d’’e pazze è il regno dell’impossibile. Il Frullone lo diventò, prima che la legge 180 ne disponesse la chiusura, insieme a quella di tutti i manicomi italiani. In questi giorni ricorre il sessantesimo anniversario della posa della prima pietra, aprile 1963, in città venne da Roma per la cerimonia il ministro della Sanità, Angelo Raffaele Jervolino, padre di Rosa. Erano giorni di campagna elettorale e di nastri da tagliare, il presidente Antonio Segni era stato all’auditorium di via Claudio a Fuorigrotta per il primo concerto nel nuovo centro Rai, con Arturo Benedetti Michelangeli al piano insieme all’orchestra Scarlatti. 

Il Frullone ebbe una sua vita nuova con lo psichiatra Sergio Piro. Aveva sfidato le istituzioni già al Materdomini di Nocera Superiore, dando vita alla seconda comunità terapeutica in Italia, dopo quella di Franco Basaglia a Gorizia. Lo avevano licenziato, al Frullone era arrivato nel 1975, dopo un’altra esperienza in alcune unità del Leonardo Bianchi non del tutto soddisfacenti. Cominciò a svolgere un lavoro di comunità, avviò assemblee di reparto, aprì un centro sociale dove tenere delle feste, fece ricerca e formazione. Piro iniziò a organizzare seminari con i suoi allievi, sull’epistemologia, sulla linguistica, un’esperienza a cui si sono rifatti Fulvio Marone, Roberto Beneduce, Walter Di Munzio, Gemma Trapanese. 

Teresa Capacchione era all’epoca una studentessa universitaria, attratta da questo laboratorio e da questa utopia, la trasformazione dall’interno dei manicomi.

Del Frullone, sarebbe diventata responsabile delle sezioni femminili. Giuseppina, lei, l’ha vista innamorarsi. «Ero diventata psichiatra più per una vocazione politica che medica. Ero stata la prima volta al Frullone da studentessa, per chiedere la tesi. Piro non aveva la possibilità di seguirmi, allora mi sono laureata con un lavoro sulle tavole rotanti dell’Alfa sud. Non avevo idea di cosa fosse un manicomio. Uscii sconvolta da quelle persone nude, ammassate nel refettorio, in mezzo a un odore di urina e segatura. Tutto quello che si diceva era vero. Un lavoro che gli restituisse umanità mi pareva una sfida meravigliosa. Provammo ad aprire le sezioni ancora chiuse. La mentalità degli infermieri era ancorata al passato. Giuseppina e il suo fidanzato chiesero di vivere insieme dentro l’ospedale, trasformato in una struttura dove c’erano delle camere. La reazione fu arcaica. La sorella mi affrontò, mi chiese come fosse possibile che persone così potessero anche innamorarsi. Disse che se Giuseppina fosse rimasta incinta, mi avrebbe denunciato. Per me si trattava di un’evoluzione sorprendente. Quando ero arrivata, Giuseppina era un sacco vuoto, uguale a tutte le altre donne che vagavano vestite di queste tuniche scure, sacchi di juta, senza parlare. E adesso invece chiedeva di poter andare dal parrucchiere, per farsi bella. Era la prova che la regressione non è sempre legata alla patologia, ma alla segregazione». 

Una cooperativa si occupava delle gite: visite ai musei, vacanze a Sapri, a Ischia. Un’anziana chiese all’autista del pullman quanto costasse il biglietto, mille lire, e sobbalzò, l’ultima volta che era stata fuori dal Frullone - disse - con mille lire si comprava una casa. Quando i manicomi sono stati chiusi, i pazienti sono finiti nelle Sir, le strutture intermedie residenziali, nei territori di appartenenza. Avrebbero dovuto avere carattere di transitorietà. Giuseppina e il suo fidanzato lottarono per restare insieme. 

«Molti sostengono che la legge 180 - dice Teresa Capacchione - fosse troppo avanzata per la nostra mentalità, per la capacità di coglierne l’aspetto rivoluzionario. Nell’idea della legge i servizi non dovevano essere quello che sono diventati, gli ambulatori non dovevano essere luoghi dove si fanno solo tso e somministrazione farmacologica, dove il personale è ridotto, inadeguato ai bisogni. Molte figure previste dalla legge sono scomparse. I centri dovevano avere una dimensione antropologica, non essere solo un luogo sanitario, ma permeabile, dove far entrare le associazioni di volontariato, il territorio. Non è andata così. La condizione d’oggi è quella di servizi che versano in una dimensione drammatica». 
 

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