Appelli, la giustizia negata a Napoli: quattro anni senza un'udienza

Appelli, la giustizia negata a Napoli: quattro anni senza un'udienza
di Leandro Del Gaudio
Lunedì 29 Ottobre 2018, 07:00 - Ultimo agg. 12:35
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L'ultima mail ricevuta dai piani alti della Corte di appello di Napoli lascia poco spazio alla fantasia: ci sono 15mila nuovi processi da smaltire - la chiamano «sopravvenienza» -, un dato destinato ad entrare nella relazione di gennaio in vista dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. Pochi giorni fa, dunque, l'ultima stima: 15mila processi in Appello, tra cui molti «maxi» dibattimenti, roba di cinquanta imputati alla volta. Un'emergenza tutta napoletana, destinata a congelare in una sorta di limbo giudiziario vicende che attendono da anni una definizione in appello. Parliamo anche di casi eclatanti, spesso culminati in condanne esemplari in primo grado, che restano immobili, fino a sparire quasi completamente dalla memoria collettiva. Storie finite in uno scaffale virtuale destinato ad ingrossarsi alla luce della pec che riassume la cifra dell'ultima sopravvenienza.

Qualche esempio, tra i più eclatanti, solo per fare luce su un fenomeno tutto napoletano. Anno 2014, si chiude in Tribunale un'inchiesta rumorosa e complessa, quella sulla devastazione di Pianura, durante l'emergenza dei rifiuti nella zona di Contrada Pisani. Devastazione organizzata, grazie a un patto tra politica e hooligans da stadio, secondo quanto emerge dalla lettura del dispositivo pronunciato dal Tribunale.
 
Maggio di quattro anni fa, dunque, arrivarono condanne destinate a fare notizia: otto anni all'ex vicepresidente del consiglio comunale Marco Nonno, il politico di Pianura ritenuto responsabile di aver alimentato un clima barricadero contro la riapertura della discarica, accusato di aver costruito un asse con alcuni tifosi del gruppo «niss» (niente incontri solo scontro). Ipotesi suffragata da un verdetto di primo grado (per la quale i capiultrà incassarono fino a 12 anni di reclusione), ma pur sempre ipotesi, in mancanza del timbro definitivo di un giudice. Anni di lavoro per inquirenti e parti in causa, c'è il rischio prescrizione. Quattro anni dopo il verdetto di primo grado, non c'è traccia dell'appello. Non c'è una data, né una udienza fissata di qui a qualche mese. Zero. Tutto racchiuso in un fascicolo destinato a rimanere sepolto ancora per qualche tempo, almeno alla luce dell'ultima mole di carte segnalate dalla Corte d'appello.

Stesso discorso per altri fascicoli più o meno noti, per altre vite che aspettano di essere raccontate con la prosa di un giudice, per altre parte parti che attendono giustizia. Ricordate il caso di Cristoforo Oliva, il 19enne scomparso a Chiaiano nell'ormai lontano 2009? Sembra che anche il suo fascicolo sia scomparso, almeno a giudicare dal trend assunto in questi anni ai piani alti del Palazzo di giustizia. Siamo a due anni dall'ultimo provvedimento, quello assunto dalla Corte di Cassazione, che rimandava gli atti a Napoli per una nuova valutazione della Corte di Assise d'appello. Non siamo in presenza di un maxiprocesso, ma di un dibattimento che chiama in causa un solo imputato (ormai non più detenuto), ritenuto responsabile dell'omicidio del suo amico di sempre, oltre ad aver contribuito a farne sparire il cadavere. Il classico processo indiziario, raccontato da decine di testimoni sentiti in primo grado e dalle intercettazioni acquisite dalla Procura di Napoli, che ruotava attorno alla figura di Fabio Furlan: per lui due verdetti a sfavore in primo grado e in appello, salvo ottenere un responso favorevole dalla Suprema Corte. Dunque: condannato a 30 anni di reclusione in primo grado nel 2013; due anni dopo, il verdetto viene confermato, con una condanna a 25 anni e sei mesi, un caso quasi chiuso, sembra l'anticamera della condanna definitiva. E invece la Cassazione accoglie i motivi dei legali di Furlan (gli avvocati Annalisa e Saverio Senese), che rimanda le carte a Napoli. Anno 2016, Furlan viene scarcerato (attualmente è in Spagna per lavoro), il processo perde attualità (come se fosse declassato) e finisce nel limbo. Già, perché la linea d'ombra è tutta lì: se il processo è con detenuti ha buone possibilità di essere fissato, se il processo non ha più detenuti passa sullo sfondo, finisce nell'archivio del non giudicato.

Più o meno come è accaduto a un altro delitto di cui tanto si è parlato negli anni scorsi: l'omicidio di Mariano Bacioterracino (anno 2009), una vendetta servita fredda dalla camorra nei confronti di un soggetto ritenuto responsabile negli anni Ottanta del delitto del capo famiglia dei Moccia, che vede coinvolto il presunto killer Costanzo Apice. Si dice presunto alla luce di quanto accaduto in questi anni, nei confronti dell'imputato che venne individuato grazie alla diffusione di un video in cui un uomo col berretto faceva fuoco contro Bacioterracino, all'esterno di un bar di via Vergini: condannato all'ergastolo in primo grado e in appello, la Cassazione accoglie il ricorso dei difensori (avvocati Claudio Davino e Saverio Senese) e rimanda le carte a Napoli. Che restano ferme per tre anni. Tanto che qualcuno si chiede: se non è stato Costanzo Apice, qual è il nome del killer immortalato nel filmato?
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